L’importanza del pensiero cristiano e cattolico nella tradizione artistica occidentale è, almeno sulla carta, evidente a tutti. E non solo per l’azione che la Chiesa ha sempre esercitato come ispiratrice e committente di opere d’arte tra le maggiori mai realizzate. Ma anche perché questa azione ha donato a generazioni e generazioni di artisti un canone espressivo condiviso e instancabilmente esplorato. Tuttavia, con l’avanzare dei processi di secolarizzazione e il venir meno delle competenze dottrinali di base, un tempo molto diffuse tra gli addetti ai lavori, la sintonia tra arte e fede risulta oggi di difficile percorribilità. Pregiudizi, incultura, conformismo - anche da parte delle istituzioni ecclesiastiche, quando delegano passivamente ogni decisione all’artista o all'architetto di turno - si dividono la responsabilità di questo stato di cose. Accade così che molti grandi personalità che, anche nel ‘900, hanno continuato a frequentare l'immaginario cristiano, vengano disconosciute proprio in questa loro ambizione, in questa loro scommessa con il tempo. L’architetto spagnolo Antoni Gaudì (1852-1926) è tra le vittime più illustri di questo disconoscimento. Ristabilire una corretta valutazione della sua personalità e della sua opera significa anche fare i conti con quella cultura avanguardistica della quale egli è considerato un precursore, mentre ne è invece una delle più acute coscienze critiche. Uscito sul numero di marzo 2002 della rivista Studi Cattolici, nel centocinquantesimo anniversario della morte di Gaudì, il saggio di Ciro Lomonte che qui ripubblichiamo corredandolo di una serie di immagini scelte per l'occasione, conserva intatta la sua forza d'urto, e ci restituisce l'immagine di un artista universale. Ciro Lomonte, che ringraziamo vivamente per avere acconsentito a questa riedizione del suo testo, è architetto esperto di adeguamenti liturgici e arte sacra, fondatore e presidente dell’associazione culturale Magistri Maragmae di Monreale, docente presso l’Università Europea di Roma, redattore della rivista Il Covile. Tra i libri da lui pubblicati ricordiamo (con Guido Santoro) Liturgia, Cosmo, Architettura, Cantagalli, Siena 2009.
Nell’architettura contemporanea è diffusa una passione contraddittoria per tutto quanto è confuso e disordinato. Non a caso il Pritzker 2000 è stato assegnato a Rem Koolhaas, il cantore della “metropoli delirante” 〈1〉. È giusto che gli architetti nutrano una sana diffidenza nei confronti delle utopie razionaliste del Novecento, i cui fautori pretendevano di controllare ogni processo di antropizzazione del territorio. Tuttavia, in questo scorcio iniziale del XXI secolo, si registra l’eccesso opposto: la fiducia messianica in alcune forme di vitalità anarchica, che ben poco hanno in comune con un’arte caratterizzata dal desiderio di mettere armonia nelle cose.
È un sintomo ulteriore di un fenomeno nuovo, di non facile comprensione: tutte le arti figurative si crogiolano all’interno di un labirinto intricato.
Alcuni attendono fiduciosi una profonda rinascita, ma per darle inizio gli artisti odierni avrebbero bisogno di affidarsi a guide realmente capaci di condurli fuori dal meandro. Servono autentici Maestri, non alchimisti del pensiero. Occorrono esempi reali, non elucubrazioni sterili. La bellezza artistica scaturisce dalla fervida immaginazione degli artefici dotati di maggiore creatività. Le teorie serve conoscerle nella misura in cui generano canoni validi ed esercitano una benefica influenza sull’operato degli artisti.
Alla scuola del genio
Nel campo dell’architettura il Maestro più significativo da questo punto di vista è Antoni Gaudí i Cornet (1852-1926). Non è un artista vivente, anzi, sono passati tre quarti di secolo dalla sua scomparsa. Ma rimane tuttora il punto di riferimento più convincente per trovare una soluzione alla odierna babele di linguaggi.
Una difficoltà di comprensione dell’opera del Maestro catalano è dovuta all’ostracismo di cui lo fanno vittima gli architetti moderni. Risulta evidente l’imbarazzo con cui se ne parla nei manuali di storia dell’architettura moderna (qualora se ne parli). Un’altra difficoltà è rappresentata dall’esiguo numero di seguaci, sproporzionato rispetto allo stuolo di ammiratori. D’altra parte le sue lezioni sono piuttosto complicate, giacché egli sostiene, a ragione, di essere destinato a perfezionare il gotico 〈2〉. A prima vista egli può apparire un espressionista, che cerca un’organicità del tutto eccentrica. Invece si tratta di un architetto molto razionale, che non ha mai complessi di inferiorità nei confronti dell’architettura razionalista, come capita persino al grande Frank Lloyd Wright quando progetta la Casa sulla Cascata. C’è un unico artista di fronte al quale Gaudí china rispettosamente la testa: il Creatore.
Ci avviciniamo rapidamente al 2002, dichiarato Anno Internazionale di Gaudí in quanto verranno celebrati i 150 anni dalla nascita. È auspicabile che vengano fatti molti passi avanti nello studio di questo genio dello spazio, forse il più grande architetto di tutti i tempi, dato che risolve in modo impressionante la continuità delle strutture nello spazio, eliminando la separazione netta fra elementi verticali e orizzontali 〈3〉.
Come afferma Maria Antonietta Crippa, «le forme naturali di paraboloidi, iperboloidi, elicoidi sono, insieme alla catenaria, il luogo privilegiato della sua sperimentazione, forme la cui stabilità non deriva da complessi calcoli matematici, ma dal loro spontaneo atteggiarsi nello spazio, forme accessibili solo a chi ha una qualità angelica di pensiero – poiché gli angeli pensano spazialmente -, cioè possiede un senso immediatamente sintetico dello spazio, che il catalano ha appreso da generazioni di uomini di spazio, quali erano i suoi familiari, nonni e bisnonni, tutti calderai» 〈4〉.
Si tratta di un genio autentico, che non ha cercato l’affermazione personale secondo i modelli di esibizionismo a cui siamo stati abituati dagli esponenti dello star system architettonico attuale. Forse il fenomeno è inevitabile, perché oggi tutto è spettacolo e la gente è spinta a mettersi in mostra 〈5〉. Gaudí rifiutò persino di recarsi alla mostra sulle sue opere, organizzata appositamente a Parigi dal suo grande mecenate, il conte Güell, il quale spese una cifra folle per l’occasione.
Ogni tanto vengono cercate parentele fra Gaudí e qualche stella del firmamento contemporaneo. Ma i paragoni non reggono. Santiago Calatrava è spagnolo come lui (di Valencia), però ha un gusto eccessivo per la plasticità delle strutture, che non tiene conto dell’organismo architettonico (ossa, muscoli e pelle) come faceva il Maestro catalano. Le ardite composizioni di Frank O. Gehry, come l’ormai famosissimo Guggenheim di Bilbao, sono troppo virtuali, cioè studiate al computer, lasciando agli strutturisti il compito di farle reggere in piedi. E poi Gaudí non avrebbe impiegato mai un materiale deperibile come il titanio 〈6〉.
Dobbiamo evitare l’errore di farci inebetire dalla meraviglia iniziale. Il genio è un personaggio che stupisce per la facilità con cui crea e crea in abbondanza, soprattutto agli occhi di chi esercita la stessa professione e sa quanta fatica costi raggiungere risultati di gran lunga inferiori. Nel caso di Gaudí inoltre siamo travolti dalla mole di opere costruite, curate in un’infinità di dettagli. Ma questo non deve far desistere dall’analizzare uno per uno i suoi insegnamenti.
Gaudí e le avanguardie
Durante l’incontro del Giubileo degli artisti, Ennio Morricone additò nel materialismo il malanno più grave del Novecento e sostenne che esso andava curato con le medicine offerte molto tempo fa da Kandiskij nella sua famosa opera, Lo spirituale nell’arte.
Morricone è autore di colonne sonore gradevoli, che hanno meritato ben cinque nomination all’Oscar, però questa sua affermazione denota una certa ingenuità. I vermi che hanno bacato la civiltà (e l’arte) del cosiddetto secolo breve sono stati varie forme di gnosi, materialista nella sua variante marxiana, ma più spesso spiritualista, come nel caso delle avanguardie del Novecento, legate a movimenti che praticavano esoterismo di tipo orfico.
Lo spirituale nell’arte, pubblicato nel 1912 da Vasilij Kandiskij (1866-1944), è il testo programmatico del movimento pittorico Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), che nasce a Monaco nel 1911. Siamo alle origini dell’arte astratta, cioè di una nuova lotta iconoclasta, come quella che infuriò in Oriente nei secoli VII ed VIII e come quella luterana del XV secolo. Ma stavolta è una sfida anticristiana, perché nasce nell’alveo della teosofia.
Dagli scritti di Kandiskij risulta chiaro come egli applichi in modo letterale alla sua arte lo spiritualismo kitsch della fondatrice di questa sorta di super religione, Madame Blavatskij. Per questa ragione il pittore russo ritiene il mondo fisico privo di importanza, addirittura un ostacolo che nasconde agli occhi degli uomini la realtà dello spirito. L’arte nuova, che doveva essere arte per l’arte (vale a dire libera dai vincoli posti dal committente), si sarebbe realizzata nell’affrancamento dalla schiavitù della materia.
Sono principi in esplicita polemica con la tradizione cattolica, la quale ha sempre insegnato che la materia è buona in quanto creata da Dio e santificata dall’Incarnazione della Seconda Persona della Trinità. Inoltre, benché l’arte non abbia scopo (nel senso utilitarista e pragmatico del termine), il suo senso è quello di manifestare la bellezza, non di autoesaltarsi. Gli stessi principi, con le stesse radici teosofiche, trovano applicazione in architettura nello stesso periodo nell’opera dei fondatori del neoplasticismo e del Bauhaus.
In questi anni Gaudí è impegnato in molti progetti, che mostrano le profonde differenze tra le sue convinzioni e quelle degli ideologi delle avanguardie.
Questi si adoperano per far nascere un’arte rivolta soltanto alle élite. Usano simboli enigmatici, paragonabili (per fare un esempio più vicino a noi) al monolite di 2001 Odissea nello spazio. Lui invece impiega una profusione di simboli chiari, adatti a veicolare messaggi a tutto il popolo, senza cadere nelle banalità, anzi, evocando il mistero in modo inedito.
Questi prediligono l’astratto, in quanto spiritualista. Lui si sforza di esaltare la natura con un linguaggio figurativo da precursore, anche perché nasce da una drammatica sfiducia nelle possibilità di invenzione o di copia dal vero del suo tempo: fare il calco ad una vecchia asina viva per immortalarla nella Facciata della Natività precede di un secolo le simulazioni al computer, restando però ancorato alla realtà 〈7〉. Quanto si potrebbe dimostrare utile oggi questo esempio! L’uso dell’ornamento in Gaudí potrebbe rivelarsi allo stesso tempo canto del cigno nel XIX secolo e profezia lungimirante del XXI.
«Dal punto di vista figurativo – scrive Marcello Fagiolo -, Gaudí è un autentico profeta, anche se inascoltato come Cassandra. Spesso riesce a fondere le tre arti con risultati sbalorditivi, quali non s’erano più visti dal tempo di Bernini» 〈8〉.
Se l’architettura è sapiente soluzione della triade vitruviana (firmitas, utilitas e venustas), nessun architetto ha mai raggiunto nella storia una sintesi tanto compiuta. Tuttavia Joan Bassegoda i Nonell, il più grande studioso vivente del Maestro, sostiene che egli sia più un costruttore che un architetto, perché non trae affatto spunto dai libri di architettura. Gaudí osserva la natura: per lui la miglior colonna è l’albero, la migliore cupola è il cranio. Egli non usa le geometrie semplici come fanno tutti gli architetti (il motto dei trattatisti del Cinquecento è squadra e compasso, tutto il resto via). Inoltre Gaudí ama l’architettura spontanea, l’ architettura senza architettura: lo si nota nella sistemazione della grotta di Montserrat dedicata al mistero glorioso della Risurrezione, dove la statua del Risorto è collocata in modo da essere baciata dal primo raggio di sole del mattino di Pasqua e i fiori piantati sprigionano il profumo più intenso proprio quel giorno. Gaudí ha idee concrete, chiare, e lo si vede nel modo di trasmetterle agli artigiani.
Gli epigoni delle avanguardie sono intellettuali che amano la novità in quanto tale. Quanto più cervellotica tanto meglio. Lui al contrario è realista e sperimenta in prima persona le verità che poi inserisce nei suoi progetti.
Questi idolatrano il progetto come levatrice di un mondo nuovo. Lui, sebbene disegni molto bene, preferisce il controllo diretto in cantiere a qualsiasi virtuosismo grafico.
Si potrebbero aggiungere altre diversità, riguardo alla sincerità delle strutture, all’arte per l’arte, alla lotta contro il mondo borghese, e così via.
Gaudí e l’antroposofia
Qualcuno ha accostato l’opera di Gaudí a quella di un suo contemporaneo, Rudolf Steiner (1861-1925), conosciuto ai più come l’inventore delle scuole Waldorf.
L’unico edificio costruito da quest’ultimo è il Goetheanum di Dornach, destinato alla rappresentazione dei suoi mysterien-drama. Il progetto è elaborato sulla base di minuziose verifiche su modellini di creta. L’edificio conserva nella sua massa monumentale la plasticità del calcestruzzo, trattato a superfici irregolari continue con frequenti allusioni a forme umane, come il podio simile a una laringe, i pilastri a forma di tibia, ecc. Il procedimento sembrerebbe simile quindi a quello che ha generato le ossa-colonne del prospetto di casa Batlló a Barcellona. Ma non è così e non solo perché Steiner, da gnostico coerente, cerca il brutto per manifestare la negatività della materia.
Entrato nel movimento teosofico, Steiner se ne distacca nel 1913, fondando un proprio movimento, l’antroposofia. Le applicazioni al campo pittorico e architettonico delle dottrine steineriane determinano le scelte teoriche e formali di molti artisti che insegnano al Bauhaus: fra questi, Paul Klee e Vasilij Kandiskij sono largamente influenzati dalla sua teoria dei colori.
Va tenuto presente che per Steiner l’architettura è qualcosa di più di un esercizio da dilettante secondo le forme dell’espressionismo. Essa avrebbe virtù taumaturgiche. Come sede della riconciliazione di tutte le arti, da lui auspicata, essa sarebbe un veicolo per cogliere, attraverso la percezione interiore, l’armonia dell’universo del quale l’architettura sarebbe una specie di grandiosa cassa di risonanza.
Gaudí, al contrario, è sinceramente credente e cerca la salvezza nei sacramenti, non in tecniche iniziatiche. Non dimentichiamo che è iniziata la sua Causa di Canonizzazione. Inoltre egli è realista, nel senso che cerca di conoscere la realtà senza idee preconcette e desidera imitarne il Creatore. Si rende conto della bellezza della natura ed è convinto che l’uomo è chiamato da Dio a perfezionare il mondo, interpretandone le leggi costruttive 〈9〉.
Gaudí è un personaggio assolutamente unico: egli avverte una vocazione cristiana che riguarda principalmente il suo compito professionale. Sa di essere architetto di Dio e a questa chiamata ritiene di dovere sottomettere tutto il resto. Per questa ragione sceglie di non sposarsi.
Il Maestro & il mostro
Il principio di immanenza può essere definito il démone della modernità. Prestare maggiore fiducia alla ragione piuttosto che alla realtà ha l’effetto di un vaso di Pandora da cui salti fuori il leggendario Basilisco, che lascia impietrito chiunque osi guardarlo negli occhi. Gaudí deve avere sofferto la malia di quei sedicenti profeti e costruttori di un mondo nuovo di cui pullulava l’Occidente tra Ottocento e Novecento. Debbono essere stati i suoi famosi occhi chiari, capaci di guardare la realtà senza i filtri deformati di quegli oracoli, a fargli riportare la vittoria sul mostro 〈10〉.
Il tema del dragone è ossessivo nel giovane Gaudí. Sin dai primi lavori come collaboratore di Josep Fontseré i Mestres, nella cascata del Parco della Cittadella, non smetterà mai di inserirlo come elemento decorativo.
Questo aspetto compositivo giungerà alla massima espressione monumentale nel capolavoro della forgia catalana che è il cancello di accesso ai Padiglioni Güell, al quale Gaudí lavora personalmente a Reus con suo zio. È tale l’importanza di questo mostro, che sembra come se la porta fosse stata fatta soltanto per reggere un dragone di queste dimensioni e non, al contrario, perché il dragone fosse un elemento decorativo di un cancello, che serve innanzitutto per entrare ed uscire.
Roberto Pane ne dà una descrizione minuziosa. «Questo non conosciuto antenato delle invenzioni picassiane ha il corpo raffigurato da una lunga molla a spirale; essa si restringe e si allarga mentre fornisce la similitudine delle pieghe grinzose nelle quali un drago “vero” potrebbe avvolgersi e svolgersi; allo stesso modo, nella sottile maglia di ferro con cui sono articolate le ali del mostro si riconosce un corrente prodotto industriale; ma queste ali suggeriscono un senso di aridità ripugnante, e quindi un “vero” metafisico assai più efficace che se esse fossero di vetro, e cioè concepite secondo una più realistica imitazione di quelle di un insetto. Inoltre, le travi a T e a L, che formano la struttura del telaio, sono convenientemente trasfigurate da innesti di alette e sovrapposizione di altri ferri. Più verosimili sono la testa del drago, dalla bocca spalancata, e le zampe; ma anche qui la plastica è sempre definita per mezzo di elementi congiunti o sovrapposti insieme; insomma secondo il modellato di un fabbro che si faccia scultore, tagliando, in forma di squame, pezzi di lamiera e forgiando denti ed aculei con punte e strisce di ferro battuto. E, per concludere, quando il cancello si apre, il congegno di una catena fa in modo che la zampa anteriore del drago si muova completando, in un gesto minaccioso, l’ingenua e singolare rappresentazione» 〈11〉.
Da segnalare, inoltre, il rapporto di questo dragone con la donzella e San Giorgio, dato che nella parte bassa del cancello appare una scacchiera di rose. S. Giorgio, il leggendario santo che avrebbe ucciso il drago (secondo la tradizione spagnola sarebbe stato medico), è molto popolare in terra catalana. È il patrono della Catalogna e dell’Aragona. Esiste anche un rapporto liturgico fra il santo e la remissione dei peccati. Nel giorno dedicato al santo cavaliere (23 aprile) viene espressamente invocata la sua intercessione per il perdono dei peccati ed è abituale celebrare le Prime Comunioni 〈12〉.
Dopo essersi liberato da questa fissazione, l’architetto continuerà ad usare il tema del dragone in alcune opere successive, ma o si tratta di un animale perfettamente addomesticato e persino simpatico, come succede nella scalinata del Parco Güell, oppure si trasforma in una semplice allusione, come accade con la grande schiena del dragone della copertura di Casa Batlló.
Gaudí dovette raccogliere il tema che sopravviveva nella cultura popolare, retaggio di un antichissimo culto animista, secondo il quale gli animali sono incarnazione di spiriti superiori. Gaudí riesce infine a cristianizzare questo motivo di origine pagana che così, nella Sagrada Familia, raggiunge la sua più raffinata espressione simbolica nel dragone-demonio che deposita una bomba nella mano di un operaio anarchico, gruppo scultoreo facente parte della cappella del Rosario.
La coerenza come lascito
Juan José Lahuerta 〈13〉 fa notare la presenza nell’opera del Maestro di due temi interessanti: la redenzione della materia e la santificazione del lavoro.
Il Palau Güell (1885-1889) è organizzato come un tipico edificio islamico attorno ad una corte (iwan). Si avviluppa verso l’alto attorno ad una sorta di axis mundi che culmina nella doppia cupola, parabolica all’interno e conica all’esterno. Procedendo dal basso verso l’alto, i piani sono destinati:
– agli animali (i cavalli delle carrozze nello scantinato);
– agli uomini (il grande salone centrale);
– agli angeli (l’intradosso della cupola);
– a Dio (l’estradosso della cupola).
Va rilevato che la superficie esterna della cupola è rivestita con i frammenti di coccio e di vetro provenienti dalla lavorazione dei piani bassi. Ne risulta un paramento elegante, visibile solo dal cielo (da Dio), ottenuto dando nuovo valore a qualcosa che era stato reso spregevole dall’intervento maldestro dell’uomo. Insomma è una parafrasi della grazia della Passione che redime l’uomo dalle sue cadute.
Questo procedimento è impiegato anche nel trencadis del Parco Güell (1900-1914). In questo procedimento laborioso, volutamente orientato a far faticare i muratori, testimonianze dirette ci dicono che Gaudí ravvisasse una maniera di rendere santo il lavoro e l’opera stessa.
La fede di quest’uomo si riflette nel suo operato in una incredibile unità di vita. La Sagrada Familia ne è la prova più eloquente, non solo perché l’architetto dedica a questa costruzione gran parte della sua vita, dal 1883 al 1926 (in pratica fino al giorno della morte), ma anche perché si tratta di un tempio espiatorio. È infatti voluto da un colto libraio editore di Barcellona, Josep María Bocabella i Verdaguer, per compensare le offese arrecate a Dio nell’epoca della secolarizzazione 〈14〉.
Araldo della Renaixença?
Per i Maestri del Movimento Moderno la decorazione è una maschera fastidiosa e superflua della struttura. Gaudí, al contrario, rielabora la storia reale facendone ornamento architettonico 〈15〉.
L’immaginazione assolutamente unica del genio catalano attinge a molteplici sorgenti, che vanno dalla cultura classica greca (così come la interpreta un uomo convinto che solo nel Mediterraneo potesse svilupparsi la civiltà 〈16〉) alla Bibbia. Un’altra fonte è costituita dalle riflessioni sulla liturgia di alcuni suoi amici, come Torras i Bages (il vescovo che afferma icasticamente: Catalogna sarà cristiana o non sarà). Tutti i suoi riferimenti culturali si trasformano in forme spaziali e sculture.
Gli architetti dovrebbero inserire nei loro progetti quanto ragionevolmente richiesto da chi li paga. In effetti Gaudí non usa sempre simboli suoi, con un atteggiamento scandaloso per la concezione elitaria delle avanguardie. D’altra parte il Maestro si muove in un circolo culturale molto vivace, quello della Renaixença, il movimento della rinascita catalana. Don Eusebi Güell, l’uomo più ricco della Spagna di questi anni, è una persona tanto colta quanto nazionalista: legge Platone guardando il mare dalle alture di Barcellona e sogna la sua città come una nuova Delfi.
Tornando quindi al cancello di accesso ai Padiglioni Güell, vanno sottolineate le osservazioni fatte da Bassegoda in una conferenza tenuta a Roma 〈17〉.
Qual è il vero significato del dragone? Gli studi iconologici richiedono profonda attenzione: se uno scultore raffigura un cane non è detto che voglia evocare necessariamente S. Vito. Qualcuno, data la profusione di simboli adoperata nelle sue opere, ha pure azzardato l’ipotesi peregrina che Gaudí fosse massone. Una delle prove addotte è una stella a cinque punte che si trova nel Parco Güell, che vuole richiamare invece le cinque lettere del nome Güell.
Nella Finca Güell il dragone è incatenato a un pilone la cui sommità è decorata come un arancio. Bassegoda sostiene che il riferimento corretto sia l’undicesima fatica di Ercole, secondo il racconto di Esiodo e la rilettura del mito operata da Jacint Verdaguer i Santaló (1845-1902) nel poema L’Atlantide, scritto nel 1877.
L’impresa riguarda i frutti aurei di un melo, dono di nozze della Madre Terra a Era, che la dea aveva tanto gradito da piantarlo nel proprio giardino. Questo si trovava nell’estremo Occidente, sulle pendici del monte Atlante. Era un giorno si accorse che le Esperidi, figlie di Atlante, cui essa aveva affidato il sacro albero, stavano cogliendone le mele. Ordinò allora al sempre vigile drago Ladone di arrotolarsi attorno al tronco e di fare attenta guardia. Eracle uccise il drago scoccando una freccia al di sopra del muro del giardino. Atlante raccolse tre pomi per lui.
Verdaguer collega questa fatica alla Catalogna, affermando che Eracle avrebbe piantato un rametto dell’albero a Barcellona.
Nella Finca Güell i rimandi al mito sono molteplici. Il mostro è addirittura modellato secondo la forma della costellazione del Serpente, nella quale fu mutato Ladone dopo la morte, e di quella di Ercole. C’è una notte di aprile in cui si può ammirare il drago di stelle sopra quello di ferro. Inoltre nella tenuta sono presenti i tre alberi – un olmo, un pioppo e un salice – nei quali le Esperidi vennero trasformate per punizione.
Un altro esempio emblematico è il Parco Güell. Il conte desidera creare una città giardino, per metterne in vendita i lotti edificabili. Vuole che l’architetto si ispiri a Delfi, la città dedicata ad Apollo, ai piedi del Parnaso, dove le pitonesse custodivano il tesoro dell’oracolo. Nel progetto di Gaudí ci sono molti riferimenti alla località greca, sita ai piedi di una via tortuosa. L’ingresso del Parco presenta il pitone di Delfi, protettore delle acque del sottosuolo. La scalinata di accesso è sormontata dall’onfalo e dal tripode. Subito sopra si apre il tempio di Apollo, unico caso in cui Gaudí impieghi (a modo suo) l’ordine dorico. Sul tempio viene realizzata la famosa piazza, non a caso denominata teatro greco (che in realtà, a Delfi, è romano).
L’affare va male, e il conte rimane molto deluso. Dei quindici ettari di terreno per sessanta case non viene venduto nulla. Solo tre famiglie vi andranno ad abitare. Alla fine il figlio del conte vende la tenuta al Comune, che la trasforma in parco pubblico.
〈1〉 Cfr. R. Koolhaas, Delirious New York, a cura di M. Biraghi, Electa, Milano 2001; M. Fuksas, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Il Pritzker è una sorta di Premio Nobel dell’architettura. 〈2〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, Jaca Book, Milano 1995, n. 67. Al n. 69 aggiunge: «Sono venuto a riprendere l’architettura là dove venne lasciata dallo stile bizantino». 〈3〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., n. 178. 〈4〉 M.A. Crippa, L’architettura di Gaudí e le sue ragioni, in A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., p. 296. 〈5〉 O forse lo è come conseguenza del principio di immanenza che sta alla base della cultura contemporanea, nella quale è prioritario sgomitare fino a dimostrare che io sono con lo scroscio degli applausi tributati a ciò che io penso. 〈6〉 Il rivestimento del museo si è già deteriorato. Per questo al momento è stato revocato l’incarico di un’opera simile, ancora più faraonica, che dovrebbe sorgere a New York. 〈7〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., n. 134. 〈8〉 M. Fagiolo, Profezia di Gaudí, in Antoni Gaudí, Vallecchi, Firenze 1979, p. 25. 〈9〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., n. 230 e 400. 〈10〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., nn. 223 e 224. 〈11〉 R. Pane, Antoni Gaudí, Edizioni di Comunità, Milano 1964, pp. 92-94. 〈12〉 Cfr. M. Schneider, Pietre che cantano, Guanda, Parma 1998, p. 76. 〈13〉 Cfr. J.J. Lahuerta, Antoni Gaudí 1852-1926. Architettura-ideologia-politica, Electa, Milano 1992. 〈14〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., n. 330. 〈15〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., n. 45. 〈16〉 Cfr. A. Gaudí, Idee per l’architettura, cit., n. 21: «Noi possediamo l’immagine; la fantasia, invece, deriva dal fantasma. La fantasia è dei popoli del nord; noi siamo concreti; l’immagine appartiene al Mediterraneo. Oreste sa bene dove va; Amleto divaga sperduto». 〈17〉 J. Bassegoda i Nonell (conservador della Reale Cattedra Gaudí di Barcellona), Fonti spirituali dell’opera di Gaudí, Roma, Teatro Flaiano, 24 marzo 2001. In alto: il tetto di Casa Batllò. Sotto: Uno dei dragoni ideati dal giovane Gaudì per la cascata del Parco della Cittadella di Barcellona (Enfo/Wikimedia Commons).