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Il fantasma della funzione

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Tutta l’ideologia antidecorativa del secolo XX si fa forte dell’idea che, nel contesto della moderna produzione industriale, la funzione di un oggetto sia un fatto così chiaro, forte ed evidente da poter avocare a sé ogni ulteriore requisito formale. Dall’equiparazione loosiana tra ornamento e delitto, su su fino al celebre motto di Mies Van Der Rohe “Less is More”, la riduzione alla pura e semplice funzione viene presentata come la panacea capace di conferire dignità estetica (che poi altro non è che il vecchio decor latino, e già questa circostanza dovrebbe far riflettere) agli oggetti della modernità. Come tutti i massimalismi e i riduzionismi, anche il culto della funzione è, dal punto di vista sia teorico sia pratico, quanto mai rischioso. Consegnarvisi è come intraprendere la ricerca del Sacro Graal: dove, come da tradizione, la meta agognata sfugge di continuo, ripresentandosi in forme sempre nuove e ingannevoli.

Ora, la domanda è questa: è davvero possibile, artisticamente parlando, dare visibilità alle mille e mille funzioni, sia attive che passive, che informano edifici ed oggetti (“sostenere”, “far entrare aria e luce”, “contenere”, “versare”, “coprire”, “premere”, “impugnare”, “tirare”… e così via all’infinito), senza ornarle e limitandosi per così dire alla pura e semplice constatazione delle loro esistenza, come quando si usa un evidenziatore per richiamare visivamente le parti essenziali di un testo? Si tratta di una sfida artisticamente e progettualmente sensata? Se così fosse, la profezia loosiana di un mondo candido e liscio avrebbe dovuto avverarsi rapidamente e con risultati non troppo diversi da quelli prospettati dai regimi totalitari del secolo XX o in alcuni celebri incubi letterari ad essi ispirati, come il romanzo 1984 di George Orwell.

Vale a dire che in pochi decenni, parallelamente alla creazione di uomini “nuovi” e “razionali” (e qui torna in mente l’operaio di Loos, «così sano che non è capace di inventare alcun ornamento») si sarebbe dovuti arrivare alla completa scarnificazione formale degli oggetti loro destinati. E con ciò stesso, ad un linguaggio visivo molto simile alla “neolingua” orwelliana, che annulla e sostituisce le lingue preesistenti verbalizzando solo ciò che è indispensabile, utile alla collettività, non inquinato da parzialità e soggettività di alcun genere. Con un tale criterio di selezione, si sarebbe dovuto prima o poi avere un solo tipo di cucchiaio, di bicchiere, di tavolo, di macchina per scrivere, di casa… o quantomeno pochissimi tipi, pressoché stabili e invarianti, di ciascun oggetto disponibile sul mercato. E la comunità degli architetti e dei designer, privata a sua volta della propria funzione, avrebbe dovuto annullarsi in quanto tale.

Mollette da bucato esposte alla Triennale di Milano in occasione della mostra curata nel 2017 da Giulio Iacchetti.

Ovviamente, nulla di tutto ciò è accaduto. Il repertorio degli oggetti e delle relative forme non è stato né socializzato né semplificato, anzi. Proprio gli anni dell’International Style più duro e puro hanno visto proliferare, di contro al ventaglio sempre più ristretto di soluzioni formali considerate accettabili, un numero sempre più grande di varianti minime sullo stesso oggetto, sulla stessa suppellettile. Come? Sostituendo via via ai vietatissimi “orpelli”, una serie di attributi formali sempre più minimali e impercettibili: un particolare tono di colore, una nuova zigrinatura, una differente curvatura del legno o del metallo, una specifica texturizzazione del pellame o del vetro o della plastica… L’iperproduzione di merci ha accresciuto e parcellizzato all’infinito, insieme al numero dei modelli, anche il numero degli addetti alla loro progettazione e realizzazione. In confronto allo “spreco” ornamentale di cui parla Loos, lo “spreco” antiornamentale è stato infinitamente maggiore.

In realtà, ciò che chiamiamo “funzione” è qualcosa di fantasmatico, di sfuggente, che proprio grazie all’ornamento prende corpo e si manifesta. Funzione e ornamento stanno tra loro come due vasi comunicanti, la cui relazione è in un gioco di alti e bassi, di dare ed avere. Gli effetti della pressione esercitata su un vaso si ripercuotono simmetricamente sull’altro; se a un capo si toglie o aggiunge acqua, anche all’altro si ha un abbassamento o un innalzamento di livello. Insomma, la visibilità della funzione non può prescindere da un quid di ornamentale, e l’ornamento non deve a sua volta mortificare la funzione. Dal Gotico al Rinascimento, dal Barocco al Neoclassicismo, non consiste forse in questo l’evoluzione degli stili artistici?

La più banale verniciatura (anche l’antiruggine che arresta la corrosione dei metalli; di più, la ruggine stessa, come si vede in molta architettura contemporanea volutamente concepita per essere lasciata in balia degli agenti atmosferici) è già ornamento, anche se si assesta al grado minimo di ornamento possibile. Come il triglifo – stilizzazione in pietra della trabeazione lignea di cui si componeva il primitivo tempio greco – così qualunque altro elemento di rivestimento, anche il più volgare e corrivo, non è mai completamente neutro rispetto alla funzione originale da cui prende forma, ma in qualche modo ne diventa la metafora, la chiosa, il corrispettivo simbolico.

Insomma, ogni società produce la propria decorazione e il proprio decoro. Magari anche illudendosi di avere debellato l’una e “democratizzato” l’altro.

In alto: segnaletica stradale. Sotto: Alvar Aalto, Sedia "Paimio", produzione Artek, 1931, cm. 64 x 60 x 83, Minneapolis, Minneapolis Museum of Art (© Alvar Aalto/Alvar Aalto Foundation).

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