Professore emerito di Sociologia all’Università del Kent, l’inglese di origini ungheresi Frank Furedi (1947) offre con questo suo nuovo libro uno strumento prezioso per orientarsi nell’attuale congiuntura globalizzata, in cui il linguaggio scritto e parlato è divenuto un terreno di lotta senza quartiere. In questa congiuntura è ormai di prammatica essere accusati di sessismo, razzismo o peggio ancora, per le ragioni più svariate. Ad esempio, perché non si è disposti a transigere sulla desinenza maschile/femminile e quindi si respingono espressioni assurde, degne della neolingua immaginata da Orwell nel romanzo 1984, come “bambin*” o “ragazz*”. Oppure perché non ci si accoda a una delle tante crociate che vorrebbero bandire dal vocabolario termini dal pedigree poco rassicurante quali “etnia”, “origine”, “sesso”. O ancora, perché ci si rifiuta di pagare dazio ai fanatismi che, retroattivamente, vorrebbero mettere all’indice questo o quel personaggio storico, o rimuovere un monumento che lo raffigura.
Ciò non significa che i fenomeni di cui sopra non abbiano alle spalle motivazioni reali, degne di ascolto. Ma un conto è farne un’analisi spassionata, un altro conto è farne un uso strumentale e interessato. Se c’è una constatazione che affiora costantemente dalla lettura del libro, è che i maggiori beneficiari della guerra santa oggi in atto contro l’idea di “confine” siano, di fatto, il colossi dell’economia, della finanza e del web attivi su scala planetaria. Indifferenti come sono a frontiere, costumi e norme giuridiche, a questi centri di potere non sembra infatti vero di poter dare una spolverata di nobiltà alla propria vera missione sociale: quella di sospingere braccia e cervelli di tutto il mondo in uno sconfinamento perenne, verso patrie sempre provvisorie.
Sgombriamo il campo dagli equivoci, aggiungendo subito che i confini di cui Furedi analizza la natura e ribadisce (entro limiti molto precisi) la necessità culturale, non hanno nulla a che fare con una visione chiusa ed egoistica del mondo. L’autore analizza infatti l’idea di confine, di frontiera, di limite, nei suoi risvolti sia materiali che morali, sia territoriali che individuali, sia pubblici che privati, con grande apertura mentale e senza minimamente indulgere a forme nostalgiche o autarchiche. Insomma, la sua non è una laudatio temporis acti, né una requisitoria contro i tempi che cambiano, né la voce di un eccentrico colpito nel vivo del suo ego. E se si parla di ego e dei piccoli e grandi narcisismi che stanno via via erodendo il terreno della vita pubblica odierna, è proprio questo uno dei rischi sui quali Furedi mette maggiormente in guardia il lettore, ponendosi così sulle tracce di Christopher Lasch, il cui La cultura del narcisismo (1979) è più volte richiamato ne I confini contano.
Si potrebbe dire che il libro di Furedi sia, in primo luogo, un’interessante inchiesta sulle piroette, sbandate ed acrobazie che caratterizzano, in modo spesso eufemistico e ipocrita, la comunicazione giornalistica e accademica dei giorni nostri. In realtà esso è molto di più: è un invito, reiterato per circa 300 pagine, a non dimenticare mai che tra le parole e le cose c’è un legame profondo, inscindibile. Un legame certamente elastico, che può evolversi nel tempo ma non può essere stravolto a piacere, a meno che delle parole (e delle cose) non si abbia un’idea meramente utilitaristica e, in fin dei conti, mistificante. Furedi concentra la propria indagine soprattutto sul contesto anglosassone, ma compie alcune incursioni anche nel panorama dei pensatori italiani (da Giorgio Agamben a Toni Negri), che fondano la propria visione destrutturante sulla negazione dei confini materiali e morali classici. Insomma, anche il lettore di casa nostra ha di che riflettere.
In conclusione, ci si potrebbe chiedere cosa c’entri il libro di Furedi con gli argomenti di cui si occupa FD. C’entra eccome, se si fa riferimento al perimetro filosofico, etico e pedagogico entro il quale ogni espressione artistica nasce e si compie. Non c’è praticamente capitolo in cui il libro non offra spunti in questo senso. Vediamo due esempi tratti dalle pagine conclusive del volume:
«Ancora negli anni Settanta del XX secolo, “appropriazione culturale” era un’espressione oscura che interessava soltanto sparuti gruppi di accademici radicali. Negli anni Novanta, però, ha acquisito un più ampio riconoscimento, in seguito all’ascesa della politica dell’identità. Quest’ultima riteneva che che le basi culturali fossero cruciali per la propria legittimazione, e quindi guardava alla cultura come a una risorsa preziosa, che era poco propensa a dividere con gli altri. Questa inclinazione a vedere nella cultura un gioco a somma zero ha favorito un senso d’ansia e insicurezza per la sua proprietà, e il diritto di rappresentare una cultura, o di partecipare ai suoi conseguimenti, è diventato una questione da sorvegliare gelosamente. Così, gli imprenditori culturali hanno cominciato ad affermare che solo le donne hanno il diritto di scrivere su personaggi femminili, o che i libri sulla storia dei neri devono essere prerogativa di autori neri, o ancora che solo i nativi americani possono raccontare la vita e i costumi del loro popolo. […] Nel 2017, l’invito a distruggere il dipinto dell’artista bianca Dana Schutz in mostra al Whitney Museum of American Art, che raffigurava un nero vittima di un linciaggio, ha dimostrato che per molti anche la libertà artistica è diventata un bene negoziabile nella crociata contro l’appropriazione culturale. […] Spesso si argomenta che soltanto gli attori gay dovrebbero avere ruoli LGBTQ nei film e a teatro; e si è persino aperto un dibattito sull’opportunità che attori non ebrei possano interpretare personaggi ebrei» (pp. 275-76).
No, non sono cose che accadono in 1984 di Orwell. Basti pensare che nel 2019, sulla base di considerazioni simili a quelle appena citate, alla National Gallery di Londra si è ipotizzato se non fosse il caso di rinunciare a esporre Gauguin, colpevole di avere avuto relazioni sessuali con minorenni tahitiane a fine ‘800. E gli esempi sarebbero molti di più. Un’altra citazione dal libro di Furedi sul tema, oggi ridondante fino alla noia, della trasgressione:
«C’è qualcosa di sinceramente performativo nel modo tronfio con cui alcune persone si vantano della loro dedizione alla trasgressione. […] In genere, non riescono a riconoscere che, in un mondo in cui lo spirito dell’assenza di confini esercita un potere considerevole, raramente “derisione, rottura e superamento dei vari confini socio-culturali” comportano costi onerosi. […] Contrariamente alle sue odierne connotazioni, un tempo la trasgressione soleva essere una cosa seria, perché implicava la violazione di una norma morale. […] Giocare alla trasgressione è diventato anche un tema ricorrente nella cultura del consumo. Le inserzioni pubblicitarie promuovono i prodotti facendo appello ai potenziali clienti perché “osino essere diversi”. […] C’è una differenza qualitativa tra gli atti di trasgressione o la sfida ai confini, che sono caratteristiche normali, anche se rare, della vita umana, e il perseguire e acclamare queste attività come fini in sé» (pp. 288-92).
Il libro: Frank Furedi, I confini contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere, prefazione di Andrea Zhok, traduzione di Paolo Ortelli, Meltemi, Milano 2021, pp. 312, euro 18.
In alto: Christo e Jeanne-Claude, Running Fence, 1976, installazione temporanea, Sonoma and Martin Counties, California. Sotto: la copertina del libro.