La presunta identità fra decorazione - intesa come arte che sovrintende al decoro dei manufatti - e arti decorative - quelle che rielaborano, per lo più in formato ridotto, soluzioni già viste nell’ambito della pittura, della scultura e dell'architettura - è uno degli equivoci più diffusi nella cultura contemporanea. Pur nello stile allucinato e deformante, questo brano tratto da Morte a credito (1936), capolavoro romanzesco di Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), testimonia invece con precisione quelli che sono gli ambiti di competenza delle arti decorative: ossia suppellettili, arredi, gioielli, ninnoli. Ambiti che interessano sì la decorazione, ma non ne definiscono né la natura, né le competenze. Il brano è tutto giocato sul senso di disillusione che il protagonista Ferdinand, giovane alter ego di Cèline, prova di fronte al campionario di oggetti, di un gusto eclettico ormai antiquato, che uno dei suoi tanti, improbabili datori di lavoro, il cesellatore Gorloge, gli offre di piazzare nei negozi di Parigi. Con la sua prosa a singhiozzo, intrisa di espressioni gergali, il grande scrittore francese costruisce un crescendo grottesco, in cui l’obsolescenza estetica degli oggetti diventa specchio delle frustrazioni di un’umanità smarrita nei suoi sogni di grandezza. Vedi L.-F. Céline, Morte a credito, traduzione di Giorgio Caproni, con un saggio critico di Carlo Bo, Garzanti, Milano 1992, pp. 129-30.
Se non proprio l’indomani, il giorno dopo lo vidi, il campionario… Gorloge era modesto… Quindici chili!… Ne pesava almeno il doppio!… M’aveva vagamente indicato alcuni tipi di «presentazioni»… Però non si pronunciava… Non aveva preferenze. Avrei fatto io, di testa mia… Si fidava del mio buon gusto… M’aspettavo robe orribili, ma confesso d’aver fatto un balzo indietro osservando da vicino tutto l’armamentario… Cose da non credersi… Mai avevo visto schifezze simili e tanti orrori in una sola volta… Un manicomio… Un inferno tascabile…
Tutto ciò che scartocciavamo era una fetenzia… Nient’altro che smorfie e ludioni… figurine di piombo cincischiate, tormentate, leccate in modo disgustoso… Tutta la crisi degli oggetti simbolici… Mozziconi d’incubo… Una «Samotracia» ridotta a non so nemmen io che pacciugo… Altre «Vittorie» in funzione di piccole pendole… Meduse irte di serpenti attorcigliati, da appendersi al collo… E Chimere e Chimere, come no!… Allegorie d’ogni genere per anelli, una più cacca dell’altra… Avevo il pane assicurato… Tutta quella roba lì uno doveva mettersela al dito, alla cintura, sulla cravatta? Appendersela agli orecchi?… A crederci!… E per giunta doveva esser comprata? Ma da chi, mio Dio? Da chi? Nulla mancava in fatto di dragonesse, demoni, folletti, vampiri… Tutta la schiera terribile degli spauracchi… L’insonnia d’un intero popolo… Tutta la follia d’un manicomio d’idiozie… Passavo dal melenso all’atroce… Nel magazzino della Nonna, in Rue Montorgueil, perfino i più stantii fondi di bottega eran rose e fiori a paragone…
Non me la sarei mai cavata con simili porcheriole. Gli altri dieci impiastri prima di me, cominciavo a capirli. Dovevan essere impalliditi… Articoli così spaventosi, in commercio mica ne trovavi più. Dopo gli ultimi romantici. La gente li teneva nascosti con terrore… Forse venivan tramandati di padre in figlio… in eredità, ma con molta cautela… Sarebbe stato addirittura un rischio mostrare tali ingredienti a persone non preparate… La nostra folle collezione… Potevan perfino prenderla come un affronto!… Nemmeno Gorloge osava più farlo… Voglio dire personalmente! Lui non lo sfidava più il corso della moda!… Era riservato alla mia bella faccia, l’eroismo!… Io ero il postremo rappresentante!… Nessuno avrebbe resistito più di tre settimane…
Si riservava, per sé, soltanto l’andare in busca delle piccole riparazioni… Tanto per tener su il laboratorio in attesa che la voga riattecchisse… Aveva delle conoscenze qua e là, nelle botteghe… Amici di tempi migliori che non volevano lasciarlo crepare. Gli passavano qualche incastonatura… Le rappezzature più lerce. Ma mica era lui a metterci mano… Rifilava tutto quanto al nostro Antoine. La sua partita, di lui Gorloge, era la cesellatura… Mica voleva rovinarsi la mano a quel modo in incaricucci meschini, perdere per una bischerata qualsiasi la propria classe e la propria reputazione. Nulla da fare. Era irremovibile, su questo punto.
In alto: Louis-Ferdinand Céline nel 1932, al conseguimento del Prix Renaudot per "Viaggio al termine della notte", in una foto dell'Agenzia Stampa Meurisse (Gallica/Wikimedia Commons). Sotto: l'edizione originale di "Morte a credito", Denoël et Steele, Paris 1936 (www.edition-originale.com).