In questi primi mesi del 2021, il Campidoglio di Washington è stato oggetto di un'attenzione mediatica senza precedenti. Prima la manifestazione dei sostenitori del presidente uscente Donald Trump, poi l’insediamento del suo successore Joseph Biden, hanno fatto sì che milioni di persone, in ogni parte del pianeta, si familiarizzassero, attraverso l’occhio delle telecamere, con questa imponente costruzione che, insieme alla Casa Bianca, simboleggia l’ordinamento politico degli USA. Nel corso delle dirette TV, i corrispondenti da Washington hanno più volte accennato alla costruzione del Campidoglio, avvenuta tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, spiegando come essa rispondesse ai canoni del palladianesimo e del neoclassicismo imperanti. I telespettatori più attenti avranno anche avvertito un netto contrasto fra il colpo d’occhio esterno, grandioso ed unitario, e gli interni spesso opprimenti e labirintici. Gli spazi di Capitol Hill risentono infatti di una suddivisione mai del tutto soddisfacente, che nel corso di oltre duecento anni ha visto ripetutamente ampliare e riorganizzare i vani necessari alle numerosissime aule, stanze e aree di disbrigo necessarie al funzionamento della macchina parlamentare. Una testimonianza d’eccezione, risalente agli anni in cui la costruzione del Campidoglio era agli inizi (su progetto, più volte rimaneggiato, di William Thornton), è quella che ci viene qui offerta dal nobile milanese Paolo Andreani (1763-1823). Viaggiatore ed alpinista, già pioniere del volo aerostatico - all'età di vent'anni era stato il primo in Italia ad effettuare un'ascensione in mongolfiera - negli anni '90 del settecento e nei primissimi dell'ottocento Andreani visitò per due volte gli Stati Uniti appena divenuti indipendenti. Le sue memorie, scritte in un italiano pittoresco e vivace, rivestono grande interesse documentario. I giudizi severi di Andreani possono in parte risentire di una visione eurocentrica, ma allo stesso tempo fanno luce sulle condizioni di improvvisazione e deregolazione, nelle quali il governo americano muove i suoi primi passi. Avviene così che le simbologie massoniche, chiaramente leggibili nell’impianto a maglie triangolari della città, debbano fare i conti con forti pressioni speculative e con un bagaglio di competenze urbanistiche molto approssimative. In questo quadro si inserisce il contributo di numerosi artisti giunti dall'Italia, nuovi arrivati in un ambiente ancora digiuno di tradizioni e di simboli in cui riconoscersi, ma ansioso di crearsene. Il brano che presentiamo è tratto dall'antologia di Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti. 1776-1880, Mondadori, Milano 2001, pp. 86-92. Per l’edizione completa del testo, vedi P. Andreani, Viaggio in Nord America. Nuova Scozia, New Orleans, Washington, Baltimora, Filadelfia, a cura di E. Fortunato, Scheiwiller, Milano 1974. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.
Nel 1790 una legge del Congresso, avendo deciso che il presidente scieglierebbe una situazione conveniente per fondare la città capitale per residenza dell’esecutivo del Senato, Congresso e dei diversi ministeri, il fu generale Waschington scielse il terreno sul Potomack, nelle vicinanze di un borgo chiamate Georgetown, stimato conveniente per la sua posizione quasi centrale fra li stati del north e quelli del sud e favorevole, eziamdio, perché colocato sulle sponde di un fiume che, a poche miglia più giù, sbocca nella gran Baya della Chesapeack, ed anch’esso navigabile fin verso la capitale da grosse navi.
È inutile di rifferire che i terreni del vicinato, in allora quasi incolti e di niuno o poco valore, aumentarono di poco tempo di quattro volte tanto e diede occasione ai vuomini denarosi di speculare e quindi accadero delle azioni nefande e delle fallite scandalose e di una natura tale che narrandole parrebbero inverosimili a tenti europei, non istrutti di quello che accade tutti dì in questa parte di mondo.
Un certo L’Eufent, di nascita francese e uffiziale di artiglieria nell’armata americana della rivoluzione, vuomo dotato di molte informazioni nella sua classe e discreto architetto, presentò a Waschingtown un piano della nuova città non privo di molto merito, se non che di una dimensione eccessivamente vasta. Egli studiò bene la situazione e tutti li accidenti favorevoli che presentavano le località, e dietro delle profonde meditazioni scielse opportunamente la sola situazione elevata che presentava il circondario e quasi centrale nella elevata fondazione della città per stabilire il Capitolio, così dovendosi chiamare la residenza del Congresso, e più giù verso le sponde del fiume per una dolce discesa ed alla distanza di circa un miglio e mezzo stabilire la residenza del presidente ed i vari dipartimenti dell’amministrazione dello stato; mentre nell’angolo opposto, formando l’altra base di un triangolo, vi fissò il cantiere per una marina nazionale che al tempo stesso sarebbe una salvaguardia contro l’avvicinamento di forze nemiche navali.
Nel piano di L’Eufent vi si trovano molte gran piazze alle quali vi diede i nomi dei diversi stati componenti la confederazione americana colla speranza che cadauno avrebbe acquistato parte del terreno ed eretto una casa per alloggio dei rispettivi rappresentanti delle due camere.
La sola censura ch’io mi permisi contro di questo piano, fine dell’anno 1792, fu che l’autore sacrificò ad alcuni punti di vista la regolarità, che sarebbe nata a strade condotte ad angoli retti, invece di che prescegliendo delle linee obligue ne risultano degli angoli di 70°, sulle cui punte li architetti più abili non vi potranno mai eriggere che delle fabbriche capricciose, a meno che non vi sacrifichino molto terreno.
La qualità di forastiere presso presso di una nazione piena di vanagloria, e benanche l’umor un poco capriccioso e bisbetico di L’Eufent, fece che, dopo molte fatiche e dei considerevoli sacrifici pecuniari, li americani s’impadronirono del suo piano e dopo molte fracasserie, che sarebbe troppo longo e noioso a narrare, nominarono tre commissari per la sua essecuzione, per la vendita dei terreni (ceduti al governo dai particolari) e la costruzione delli edifizi publici.
Tra questi vi fu un certo Thorton, nativo di Tortola nelle Indie Occidentali, che conobbi in Parigi nel 1784, con il quale insieme a Faujas di St. Fond feci il primo viaggio in Scozia e del quale parlo nel mio giornale di detto anno. Thorton, universale in tutte le scienze, pretese pur anche all’onore di primeggiare nelle belle arti, e certo non poteva meglio riuscire che tra un popolo nuovo, incolto e presso il quale l’architettura non si conosceva in allora neppure di nome. Rubbò qui e lì delle idee e unite assieme il più bizzarramente, senza talento, senz’arte e senza gusto, presentò questa massa mal digesta e informe al Congresso ed al presidente ed ottenne il premio e fu prescielto fra tutti li altri piani presentati, favorito da Jefferson, perché desideroso di avere un vuomo, il quale, non essendo dell’arte, non si sarebbe opposto ad introdurre alcune sue idee bizzarre favorite.
Al primo dar principio all’opera, Thorton si trovò confuso e si sentì incapace ad eseguire quello non già ch’egli avesse inventato, ma ben solo copiato, trovandosi ad ogni passo arrestato da quelle difficoltà che sopravvengono giornaliere, non solo nella esecuzione dei grandi edifizi, ma pur anche nella edificazione delle case private, onde egli pure fu balzato, ed altro uomo scielto in suo luogo.
Codesto essere di nome Latrobe, d’orrigine francese, impudente raggionatore d’ogni scienza, si trovò in un punto trasformato da scalpelllino in architetto e direttore di un vasto monumento, che perpetuerà la memoria delle barbarie del gusto di questa nazione per le belle arti 〈1〉.
Nell’esterno dovett’egli conformarsi al piano del precedente per quello che riguarda le due ale, giacché il corpo principale nel centro resta tuttavia ad eseguirsi, ma nell’interno costui v’aggiunse, vi diminuì, in una parola, fece cose tali che un piano escito dallo spedale dei pazzi offrirebbe in mezzo alle stravaganze qualche orriginalità. Ma procuriamo di dare qualche idea di questa massa informe ed indigesta.
La sala del Congresso occupa un lato e quella del Senato, molto men vasta, occupa il lato opposto, circondata da molti luoghi ad uso dei diversi uffici. Così era pure immaginato nel piano orriginario di Thornton, ove tutto il fabbricato centrale si riservava come pure nel presente a luoghi inutili, cioè a rotonde, ovali, e che so io d’altre irregolari e bizzarre figure. Cadauno lato forma un quadrilongo e Thornton racchiudeva in uno d’essi ovali una sala semicircolare sostenuta da collonne.
Latrobe, non potendo variare di molto il piano del predecessore, perché la misura della sala per la riunione del Congresso era fissata dalla base del numero dei rappresentanti, vi praticò egli pure un’ovale, rientrante nei due centri, non potendo meglio dar a intendere cotesta strana figura che paragonandola alla forma di un violino.
Siccome le collonne (24 di numero) sono isolate e circondate da un recinto quadrilongo, così ognuno può facilmente concepire il dispiacevole effeto che produce alla vista.
Quella gran sala è coperta da una soffitta archeggiata di legno nella quale nelle fascie vi sono pratticati dei bucchi quadri, che sembrano piggionaie, che servono di finestre, di un effetto orrendo; e questi non mica che abbisognassero per dar lume, essendo sufficientemente illuminata da varie finestre per tre lati.
Ma perché Jefferson vuolle dimostrare anche in questa circostanza il suo francesismo, desideroso di trasportare nel Capitolio la halle anbled di Parigi 〈2〉, senza avvedersi che quello che conviene ad un mercato di grano, poteva per avventura poco convenire ad un edifizio, nella cui costruzione non si risparmiò certamente la spesa e ciò per la figura e per l’effetto.
Riguardo alla sua costruzione e al disegno tutto indica la perfetta ignoranza di chi la dirriggié.
Le collonne e il loro massiccio subbasamento sono di una pietra arenaria non molto dura (gres) della medesima qualità di tutti li altri ornati, che si vedono nella facciata e la loro proporzione è veramente spiacevole alla vista, essendo alte non so bene se 12 o 14 moduli, le cannellature venendo circa a un quinto della loro altezza e la loro fustellatura non potrei dire dietro quale regola sia eseguita.
La base manca di plinto e il capitello è di una invenzione tutta orriginaria dell’architetto, o per meglio dire, non saprei in qual barbara parte d’Europa si trovi, giacché tutto strano e tutto barbaro che è, Latrobe non è capace di averli inventati.
Cotesto capitello all’insù del collare ha una corona civica simil a quelle prodotte nei furori rivoluzionari in Francia, e sopra d’esso le foglie del composito e dappoi li ornati del Corintio sopra di questi formando di tal maniera tre capitelli, l’uno sull’altro, di un effetto veramente barbaro, ma scolpiti da artisti italiani con una precisione e liggerezza ammirabile.
Siccome la ripercossione del suono impediva che li oratori s’intendessero nelle loro arringhe, così una tapizzeria pendente dietro le collonne ha in gran parte rimediato a questo diffetto e contribuisce a togliere la difformità del vacuo irregolare, che si trova dietro il colonnare. E ciò basti per l’interno.
A questa gran sala si ha presentemente accesso per mezzo di una scala meschina dalla quale si entra in un (non so bene come denominarlo)atrio o corridore di circa tre braccia o quattro di diametro ed allorquando il fabbricato centrale sarà eseguito, vi si entrerà nel medesimo atrio, passandovi da un altro atrio di circa otto braccia di figura ottangolare ed ornato di collonne di figura ed ordine barbaro, dal quale per passare alla gran sala si scendono, non so se sei od otto gradini, tanto vero che tutto questo e informe fabbricato non presenta che delle parti sconnesse tra loro e riunite da un vero ignorante.
[…]
Ad ogni angolo di questo labirinto non si trovano che collonne: o collonne longhe longhe e sottili, o grosse grosse e nane, ma tutte nuove nelle forme e negli ornati e tutte colocate fuor da proposito e senza che se ne possi assegnare l’utilità ed è in ciò in cui più manifestamente appare l’ignoranza del vuomo (il nome di artista non lo merita per niun titolo) agli occhi di tutti coloro che conoscono un poco le belle arti e le belle produzioni dei gran maestri, ma a gli occhi degli americani accada tutto il rovescio, perché non avendo visto niente, o visto cogli occhi della stupidità, sono abbarbagliati da tanto lusso e trovano bello quello che conoscono costare molti milioni, giacché è bene di avvertire che la nazione Americana ha di già speso negli appendizi di questo edifizio al di là di un milione e seicento mille pezze, cioè otto milioni di franchi.
Nella sala del Senato li ornati della volta sono di stucco meschini, ma siccome sono bene eseguiti dagli anzi accennati artisti italiani, così producono un effetto discreto, ma certe picciole colonnette, di un marmo griggio oscuro della Pensilvania, di una qualità scagliosa, che sostengono una picciola galleria, corrispondono alla meschinità del vuomo che presiede a cotesti lavori.
Nelli attellieri ho trovati li suddetti artisti di Carrara impiegati a scolpire delle statue un poco meno del naturale della stessa pietra arenaria, le quali mi fu detto che devono porsi nel Senato; non saprei ben dire se per sostegno della volta o della galleria, dovendo figurare della cariatidi sostenendo colla sola mano o la suddetta volta o galleria, immaginazione puerile, disdiciente ad una sala destinata a ricevere il 1° corpo dello stato, e di una meschinità grande, giacché la pietra arenaria non può convenire colli altri ornati e in un ristretto recinto, ove v’è impiegato il marmo ed ove le cortine ed i tappeti sono assai ricchi.
Ma che dirò della gran scala e di un’altra sala quasi sotterranea ad uso di un tribunale di giustizia?
Qui il nostro architetto Latrobe ha veramente sfoggiato tutto il lusso del suo inteletto! Cotesta sala semicircolare è una vera cantina; calandovi, non so bene quanti gradini si scendono; nell’interno si vede un bosco di collonne doriche senza base e di proporzione straordinariamente tozza e siccome non è farina del nostro vuomo di scompartire i triglifi e le metope in quest’ordine difficilissimo, così vi ha supplito con alcune teste poste isolate nell’architrave sul centro d’alcune d’esse e non di tutte.
[…]
Li uffizi destinati per le diverse segretarie, le camere pei comitati e pei presidenti non sono che bucchi irregolari e formano un labirinto innestricabile e le scale che vi conducono, e specialmente quelle destinate per le gallerie del Congresso e del Senato, hanno poco più di due piedi di largo e quasi senza luce e pure devono servire al pubblico indifferentemente e nei giorni in cui si discutono dei punti di una nazionalità grande, il concorso delli spettatori è immenso.
Per ciò che spetta al corpo centrale di questo edifizio, non ne parlerò, perché sono quasi accertato che il governo non ha per anco fissato alcuna cosa di positivo, e malgrado li astuti maneggi di Latrobe, non giungerà ad averne l’incarico, qualora il Congresso votasse una somma per la continuazione dei travagli, locché nelle circostanze attuali non pare verosimile.
L’Eufent ed altri come lui mi assicurarono che la costruzione di tutto il fabbricato è talmente diffettosa e poco solida che rovinarà in poch’anni, sopratutto per le giornaliere variazioni del direttore Latrobe, che taglia le muraglie dall’alto al basso ad ogni momento per eseguire dei cangiamenti, o per meglio dire, per prolongare i lavori, nei quali egli trova il suo ben essere. Ma di questo io non posso parlare con fondamento, non avendomi la mia salute permesso di fare le osservazioni necessarie per verificare questo punto.
La casa del presidente è il secondo gran fabricato publico, collocato circa tra mezzo il capitolio e Georgetown, distante un miglio e mezzo dall’uno e dall’altro. Questo edifizio ha circa 180 piedi di longo per 100 di largo, ornato nell’esterno da un frontone di quattro mezzo collonne e tutto rivestito di pietre di taglio di qualità stessa del gres, di cui sono tutti i fabbricati e pubblici e privati. Pretendesi da taluni che l’esterno di questo palazzo sia una copia fedele di una villa nelle vicinanze di Parigi ed esistente in una raccolta di opere di architettura, locché non posso asserire che sia di fatto.
Ma sia come si voglia, od orriginale o copia, non lascia di essere difettoso, senza però che vi scorghino le mostruosità, che sfigurano il capitolio, e difatti non vi si rimmarca di ben disgustoso che la sottilezza delle collonne e il gran vano tra l’una e l’altra.
〈1〉 Il generale Waschington si fece cedere dai proprietari delle terre, ove è fondata la città, metà dei lotti, o divisioni; il denaro procedente da questa vendita servì a fondare le fabbriche pubbliche. È facile a concepire i vantaggi che i proprietari ricavarono da questa convenzione [nda]. 〈2〉 Halle anbled: Andreani allude alla Halle aux blés, la borsa merci costruita a Parigi su progetto (1763-67) di Nicolas Le Camus de Mézières, successivamente rimaneggiata ed oggi sede della Collezione Pinault [ndr]. In alto: il Campidoglio, lato ovest. Sotto: il Campidoglio, lato est (foto Martin Falbisoner/Wikimedia Commons).