Mano mano che, col trascorrere del tempo, molti suoi tesori semisconosciuti tornano alla luce, il ‘900 si rivela essere stato, anche alla voce “decorazione”, un capitolo di storia dell’arte più ricco ed avvincente di quanto non si sarebbe detto fino a qualche tempo fa. Nonostante gli anatemi che le hanno colpite, confinandole nel limbo delle abitudini poco raccomandabili, le pratiche decorative hanno continuato ad esercitare la loro attrazione su molti validi artisti che, per forza o per scelta, sono rimasti nell’ombra, lontani dalle luci dei riflettori.
Uno svago, un diversivo più che un evento artistico in senso stretto: questo lo status di cui le procedure della decorazione si sono spesso ammantate nel secolo scorso. Ma potrebbe essere che, come tutti i tabù, anche quello antidecorativo abbia finito col rendere più desiderabile e, sotto sotto, perfino vagamente trasgressivo, l’oggetto del divieto. Ovvero: non potendo più essere recepita e praticata come virtù pubblica, per l’abbellimento dell’architettura e degli oggetti, alla decorazione non è restata altra possibilità che quella di essere riciclata come vizio privato, occupazione di seconda fila, segregata dalle attività artistiche più serie. Una condizione di svantaggio dunque ma, per altro verso, anche una provocazione ed uno stimolo.
Questa anomalia si palesa appieno nella vicenda di un artista come Maurits Cornelis Escher (1898-1972): amatissimo dal grande pubblico, che non si stanca mai di apprezzare i suoi rompicapo visivi, egli è pressoché assente dalla storiografia ufficiale dell’arte del secolo XX, nella cui logica movimentistica sarebbe praticamente impossibile trovargli una collocazione. Per certi versi paragonabile al suo, è il caso dell’artista polacco Wacław Karol Szpakowski, nato a Varsavia nel 1883 e morto a Wroclaw nel 1973 〈1〉.
Architetto ed ingegnere di professione, cultore di musica e di scienze, Szpakowski fu, nel tempo libero dal lavoro e quasi in segreto, un originalissimo disegnatore. Diversamente dalle incisioni di Escher, nei disegni di Szpakowski la geometria non si ibrida con le forme naturalistiche, anzi, sposa l’aniconismo più radicale, annullando l’idea stessa di spazio e di luogo. Ogni disegno si compone di un’unica linea ininterrotta, di 1 millimetro di spessore, che zigzaga sul foglio attraversandolo da sinistra a destra, con deviazioni fisse di 90°, senza intersezioni, e con un intervallo fisso di 5 millimetri (oppure 10, 15, 20 e via dicendo se la distanza è maggiore) tra una spira e l’altra. Questo insieme di condizioni è, si potrebbe dire, l’algoritmo che governa tutta l’opera grafica di Szpakowski.
Pur essendo in contatto con gli ambienti artistici d’avanguardia (non solo in Polonia ma anche in Russia e nei paesi baltici, dove soggiornò a lungo tra la prima e la seconda guerra mondiale), Szpakowski fece ben poco per far conoscere al pubblico la sua singolare produzione grafica, salvo – nella fase finale della sua vita – raccoglierla e ordinarla tipologicamente, proprio come un repertorio di motivi, secondo la titolazione alfanumerica con cui oggi la si conosce. Dunque essa si sviluppò tutta all’ombra dell’attività di funzionario, che Szpakowski svolse alle dipendenze della pubblica amministrazione. A questo proposito colpisce il fatto che, tra le sue attività nella Polonia socialista del secondo dopoguerra, vi fosse la progettazione di pannelli decorativi per sale cinematografiche, comunità scolastiche, centri sociali.
Si tratta di un’attività che nel secolo scorso, sull’onda prima dell’Art Nouveau, poi dell’Art Déco, ebbe grande fortuna sia in Europa che in America. Essa consentiva a chi vi si dedicava (spesso talenti di prim’ordine: in Italia non si può non ricordare almeno Lucio Fontana) di elaborare trame geometriche, caratterizzate da strutture a riquadri, a losanghe, a balze, a gradoni, spesso più libere e ardite di quelle consentite nel campo dell’arte pubblica di tipo commemorativo ed allegorico.
Pur nei limiti impostigli da un momento storico certo non facile, Szpakowski fu un protagonista delle vicende dell’arte astratta in Europa orientale. Il suo ruolo di precursore delle correnti Optical e Minimal degli anni sessanta-settanta, è riconosciuto anche nella stringata voce che gli dedica la sezione in lingua polacca di Wikipedia 〈2〉. La sua partecipazione ai percorsi dell’avanguardia primonovecentesca trova conferma anche nel modo in cui egli si avvalse della fotografia, negli stessi anni in cui questa riscuoteva grande attenzione in ambito futurista, astrattista, dadaista. C’è un suo Autoritratto multiplo, scattato nel 1912 ricorrendo ad un popolarissimo trucco fotografico: due specchi posti ad angolo retto. Quasi un segno del destino, poiché la specularità e l’angolo retto avranno un ruolo fondamentale nel linguaggio grafico di Szpakowski. Ebbene, questa immagine colloca anche il polacco nel novero degli artisti che, grazie alla fotografia, si divertono a replicare se stessi, ruotando a 360° attorno a un tavolo. Fra i tanti che, con mezzi propri o facendosi fotografare da terzi, fecero l’esperimento, ricordiamo Umberto Boccioni nel 1907-08, Marcel Duchamp, Henri-Pierre Roché e Francis Picabia nel 1917.
Ma torniamo allo Szpakowski disegnatore, per analizzare meglio alcune particolarità della sua attività grafica. Un’osservazione attenta, consapevole sia dei meccanismi che presiedono alla creazione di un pattern, sia dei materiali e degli strumenti che hanno fatto la storia del disegno tecnico in età moderna, deve infatti soffermarsi anche su altri aspetti. Innanzitutto c’è da osservare che – evidentemente non a caso – Szpakowski disegnò sempre e solo su carta da lucido.
Questo tipo di carta, disponibile in bobine oppure nei formati standard fissati a livello internazionale 〈3〉, è stato il supporto-principe del disegno tecnico fino agli anni novanta del ‘900, quando l’avvento del computer, dei programmi AutoCAD e delle stampanti ridimensionò quella tradizione grafica, nata e cresciuta con la rivoluzione industriale, fin quasi a farla scomparire. Essendo trasparente, la carta da lucido permetteva giochi di sovrapposizione, cancellazione e ritocco molto importanti per la resa delle complesse strutture ingegneristiche e meccaniche. Inoltre essa consentiva, tramite la tecnica eliografica, la riproduzione in più copie di tavole anche di grande formato.
Quello di Szpakowski è, con tutta evidenza, un segno prodotto non (o non solo) a mano libera, ma con l’aiuto di strumenti tecnici che danno al tratto grafico un aspetto meccanico, impersonale. Un segno come si può produrre con appositi pennini e tiralinee o, a partire dal secondo dopoguerra, con una stilografica tubolare del tipo Rotring, il cosiddetto Rapidograph. È chiaro che l’ingegnere Szpakowski ha grande familiarità con gli strumenti tecnici che la cultura progettuale del tempo gli mette a disposizione – tecnigrafi, normografi, lavagne luminose – e si diverte a usarli creativamente, eliminando ogni visibile apporto manuale dalla stesura finale dei suoi pattern. È come se, molti anni prima che il plotter venga alla luce, egli volesse imitarlo, eseguendo macchinalmente tutta una serie di operazioni programmate.
La distanza fissa fra una spira e l’altra ci dice che le sue serpentine grafiche presuppongono una scansione modulare, e dunque si impostano su una griglia composta di linee perpendicolari, dividenti il piano in quadrati uguali. Quando, come nel caso di Szpakowski, il supporto è la carta da lucido, non c’è alcun bisogno di tracciare preventivamente la griglia a matita: se righe, squadre e normografi non bastano e si vuole visualizzare direttamente la griglia sul piano di lavoro, non c’è che da sovrapporre la carta da lucido ad un foglio di carta millimetrata o anche solo quadrettata.
A ben vedere, la complessità dei pattern di Szpakowski è più il frutto di un piano preordinato, di una progressione cumulativa, che un ordine di difficoltà reale, oggettivo. L’impressione nasce soprattutto dalla cadenza ossessiva con cui l’artista ripete ritmicamente lo stesso gesto: l’articolazione a 90° di un segno continuo, a formare una linea zigzagante all’infinito. Una strumentazione semplicissima, insomma, per attivare un effetto ipnotico, un climax, come in certa musica minimalista realizzata, agli albori dell’elettronica, da autori come Terry Riley e La Monte Young.
La grammatica e la sintassi di Szpakowski restano abbondantemente all’interno di quelle basilari di tutta la tradizione astratto-geometrica classica, soprattutto nei mosaici pavimentali romani a tessere bianche e nere: moduli a forma di L e di S (o di croce e di svastica dove vi siano intersezioni), dipanantisi in meandri (“greche”) che danno luogo a sequenze labirintiche. Si tratta di composizioni a fregio che i mosaicisti antichi solitamente mettevano in opera per incorniciare riquadri o medaglioni a tema naturalistico. La griglia a base quadrata restò il fondamentale ambiente di lavoro dell’ornatistica occidentale anche dopo la fine dell’età antica. In ciò l’astrattista Spazkowski è idealmente un erede dei decoratori greci, romani e bizantini. Le sue invenzioni grafiche hanno alle spalle i più antichi archetipi indoeuropei, ma, per certe assonanze con l’estetica industriale del secolo XX, potrebbero far pensare, qua e là, anche ad un pannello di collegamenti elettrici o ad una scheda video o ad una superficie antiscivolo.
Questo accade anche perché l’opzione di Szpakowski è, come si è visto, la più riduttiva possibile: una sola linea, continua e senza intersezioni. Ma con ciò stesso diventa anche un’opzione totalizzante, che travalica lo spazio normalmente dato alla decorazione: la cornice, il margine appunto.
Ognuna delle composizioni di Szpakowski è occupata per intero dal proliferare dello stesso pattern : una cellula grafica ripetibile specularmente, tramite ribaltamenti destra-sinistra e alto-basso. Nel riproporsi dell’unità minima, il ritmo interno all’opera e le sue misure assolute finiscono per coincidere. La scansione di 5 millimetri è il “passo” a cui tutti i movimenti possibili sul foglio si conformano. Poiché figura e sfondo non sono chiuse, contornate, ma rifluiscono continuamente l’una nell’altra, il controscambio tra le due entità diventa pulsazione viva, energetica, che segue il propagarsi rizomatico della linea.
Fare di necessità virtù, facendo corrispondere al minimo investimento di partenza la massima resa finale, è una regola implicita di molta arte, tanto più in campo architettonico, figurativo e musicale. Le linee ritmiche di Szpakowski ne sono un’applicazione rigorosa, di grande sofisticazione formale.
〈1〉 La conoscenza di Szpakowski in Italia si deve a Riccardo Venturi, che ne ha scritto nel 2017 in un articolo pubblicato su Alias, supplemento al quotidiano il manifesto (Szpakowski, l’uomo-linea , 27 agosto, https://ilmanifesto.it/szpakowski-luomo-linea/) e sulla rivista on line Doppiozero (La linea infinita di Wacław Szpakowski , 2 settembre, https://www.doppiozero.com/materiali/la-linea-infinita-di-waclaw-szpakowski). Tra le esposizioni postume ricordate dallo stesso Venturi: AA.VV. (a cura di), Waclaw Szpakowski (1883-1973) L'infinitude de la ligne , Bruxelles, Atelier 340, 17 luglio-13 settembre 1992; E. Lubovicz (a cura di) Wacław Szpakowski 1883-1973. Linie rytmiczne , Wroclaw, Muzeum Miejskie-Pałac Królewsk, 8 giugno-31 luglio 2016; M. Chlenova, A. Komar (a cura di), Grounding Vision: Wacław Szpakowski , New York, Miguel Abreu Gallery, 13 gennaio-19 febbraio 2017. I disegni di Szpakowski sono presenti in diverse collezioni private, tra cui primeggia quella di famiglia curata da Anna Szpakowska-Kujawska (Bydgoszcz 1931), figlia di Wacław e lei stessa artista molto nota in Polonia. Tra le collezioni pubbliche, il Muzeum Sztuky di Łódź, il Muzeum Architektury di Wroclaw, il Muzeum Narodowe di Varsavia e il Museum of Modern Art di New York. 〈2〉 https://pl.wikipedia.org/wiki/Wac%C5%82aw_Szpakowski (ultima consultazione: 19 luglio 2020). 〈3〉 La pezzatura più diffusa è quella prevista dallo standard internazionale ISO, che, dividendo via via a metà il lato più lungo del foglio, va dal formato A0 (mm. 841 x 1189) al formato A4 (mm. 210 x 297). In alto: Waclaw Szpakowski, Autoritratto multiplo, 1912, fotografia, Lodz, Muzeum Sztuky. Sotto: Umberto Boccioni, Io, noi, Boccioni, fotografia, 1907-08; Anonimo, Ritratto multiplo di Marcel Duchamp, fotografia, 1917; Anonimo, Ritratto multiplo di Henri-Pierre Roché, fotografia, 1917; Anonimo, Ritratto multiplo di Francis Picabia, fotografia, 1917.