I lettori di FD conoscono già Alberto Goglio, il cui saggio Scenari della decorazione contemporanea è uscito su queste pagine all'inizio del 2019. Docente di Decorazione all'Accademia di Belle Arti di Verona e docente di Discipline Pittoriche presso il Liceo Statale "Leonardo" di Brescia, Goglio ha all'attivo una nutrita serie di mostre, sia personali che collettive, e numerosi interventi pittorici permanenti, progettati per la decorazione di spazi pubblici. Ultimo in ordine di tempo, Volto, dipinto a soffitto realizzato nello scorso mese di settembre in un tratto di via Edmondo De Amicis, nel centro storico di Dozza (BO), nel quadro della Biennale del Muro Dipinto, giunta alla sua ventisettesima edizione. Rispondendo alle nove domande di Enrico Maria Davoli - uno dei curatori della manifestazione - l'artista chiarisce alcuni aspetti interni alla gestazione di Volto, mettendoli in relazione con le problematiche già delineate nel suo precedente intervento su FD. Un ringraziamento ad Alberto Goglio e ad Agnese Tonelli, della Fondazione Dozza Città d'Arte, per averci permesso l'utilizzo delle immagini che illustrano l'intervista.
Il Volto che hai dipinto sotto la volta a crociera, che sovrasta un tratto di strada del centro storico di Dozza, è un’opera intrinsecamente “doppia”. Lo è nell’immagine, due volti reversibili, e lo è anche nel titolo, che gioca sull’assonanza tra le parole “vólto” e “vòlto”. Ci sono, nella storia dei linguaggi artistici, dei “doppi” che ti stanno a cuore e ti ispirano?
Se vuoi degli esempi, credo sia stato un importante riferimento l’opera di Escher, per quanto riguarda la simmetria, che in fondo è intrinsecamente legata all’idea di doppio. Poi, più in generale, la geometria e la sua misteriosa, più o meno sotterranea, convivenza con la rappresentazione della realtà e la sua ambivalenza. Assumendo un punto di vista molto ampio, vorrei rifarmi alla metafora dello specchio, che preferisco all’identificazione albertiana del quadro con la finestra, credo per colpa della mia predilezione per la figura umana come soggetto per i miei dipinti. Oltretutto, nella mia pittura il corpo è spesso sintetizzato attraverso un gesto pittorico che è la testimonianza di un atto corporeo, di un movimento o di uno stato d’animo, ben riconoscibili. Ecco, se identifichiamo come doppio anche la convivenza tra il linguaggio pittorico che reclama la sua autonomia e la rappresentazione, allora gli esempi sono infiniti.
Doppiezza, sdoppiamento, identità/differenza, originale/copia, positivo/negativo, bene/male: c’è un ampio ventaglio di possibilità immaginative, cui il tuo Volto può essere accostato. Ce ne sono alcune, in particolare, che rispondono alla tua personalità e alla tua cifra espressiva?
Mentre il dipinto stava prendendo forma, i passanti facevano commenti e domande sull’opera. Non è una cosa a cui sono abituato: dalle mie parti succede difficilmente. Forse la nostra è una forma di ritrosia tutta lombarda o, più semplicemente, la consuetudine dozzese con la pittura murale rende tutto più facile. Mi ha colpito che il più delle volte le persone identificassero nel doppio volto una polarità ben precisa. Chi ci vedeva un uomo e una donna, chi la stessa figura da giovane e da vecchio, e così via. Mi sono guardato bene dal contraddire chiunque, l’ambiguità è una ricchezza. Tuttavia credo sia riduttivo, addirittura fuorviante, ricondurre il dipinto all’interno di una dinamica oppositiva. Sarebbe una semplificazione ai miei occhi poco interessante e, di questi tempi, persino pericolosa. La genesi dell’opera è legata in primo luogo allo spazio che la accoglie. Il fatto che la si possa percepire indifferentemente, da un lato o dall’altro, rendeva indispensabile trovare un modo per valorizzare entrambi i punti di vista e di conseguenza, una volta compreso il gioco percettivo, relativizzare il proprio, capire che ce ne può essere un altro che ha altrettanto diritto di esistere. È un processo di riconoscimento dell’altro che è in qualche modo il contrario delle polarità a cui fai riferimento nella domanda. Si trattava di sottolineare la possibilità di un incontro, insita nel concetto stesso di strada. Lo spazio voltato è in questo senso un esempio privilegiato perché accogliente, può riparare dalle intemperie, ed è un punto di riferimento significativo nella morfologia urbana. Scherzando, ma non troppo, potrei dire che è l’unico spazio in cui un agorafobico e un claustrofobico si possono incontrare con una certa tranquillità. È pur vero che questo lavoro trova le sue radici da un lato in quella dimensione dell’ambiguo che spesso caratterizza la mia pittura, dall’altro nella ricerca ossessiva della rispondenza del dipinto al luogo che lo accoglie, che è propria del mio approccio alla decorazione. In questo senso si ripresenta la convivenza di due nature, se non opposte, ben distinguibili.
La natura stessa dell’arte, implica una polarizzazione: da un lato c’è la realtà, dall’altro la sua rappresentazione. Quando si parla di decorazione in arte, vi sono poi i luoghi comuni che contrappongono superficie e profondità, forma e funzione. Come rispondi, a livello sia programmatico sia pratico-esecutivo, a questo tipo di pregiudizi?
Chi opera attraverso la decorazione chiamandola per nome si trova continuamente a dover dare spiegazioni. Per esempio sul perché definire decorazione quella che per altri è arte, mi riferisco a chi (la stragrande maggioranza) attribuisce alla prima uno status meno che artigianale, direi dopolavoristico. Questo pregiudizio è molto più sostanziale di quelli a cui tu accenni, che pure esistono ma non sono un prodotto della modernità, direi anzi che caratterizzano la storia della decorazione da sempre, o quantomeno da Vitruvio in poi. Considero perciò questi che tu chiami giustamente “luoghi comuni”, con una certa benevolenza, perché in fondo riammettono la decorazione in un recinto che le compete e in cui si può discutere. Oggi è necessario sostenere le ragioni dell’esistenza stessa della disciplina, e direi che buona parte della mia attività di docente di accademia è orientata verso questo obiettivo. In questo senso, direi che la riflessione sui luoghi comuni che la caratterizzano è cruciale per comprendere i fondamenti della decorazione contemporanea. La mia indagine sulla relazione tra spazio ed opera d’arte ne è solo la conseguenza.
Tornando al tema del “doppio”: la duplicazione è una della chiavi che consentono di dare all’immagine, per quanto realistica essa sia, un’impronta decorativa. In questo senso, da pittore con una forte vocazione per l’arte ambientata nello spazio urbano, come procedi? Oltre alla duplicazione, vi sono altri artifici tecnici ed espressivi di cui ti servi per accentuare la valenza decorativa di un’immagine?
Hai ragione. Per questo considero Warhol uno degli artisti più decorativi del secolo scorso. La sua ossessiva reiterazione delle immagini di consumo risponde alla stessa logica della ripetizione di stilemi ornamentali nella decorazione architettonica. Si tratta di un’analogia non solo formale ma anche concettuale. La progressiva elisione del significato attraverso la ripetizione è una delle caratteristiche fondamentali dell’ornamento storico. Già Riegl lo affermò con una chiarezza definitiva. Mi è capitato più volte di lavorare in questa direzione, soprattutto quando ho dovuto intervenire in ambienti che avevano un carattere architettonico compiuto. A volte bisogna fare un passo indietro, limitarsi a tessere una trama che non si imponga su uno spazio che è già l’esito di un atto compositivo. Più in generale, per la mia formazione, la valenza decorativa di un’opera d’arte consiste nella sua capacità di relazionarsi con lo spazio in cui è inserita, sia dal punto di vista concettuale che compositivo, e di creare nessi laddove è possibile. Se l’intervento è in uno spazio senza alcuna identità, cerco una relazione privilegiata con le persone che lo abitano.
Lo spazio tridimensionale dell’architettura, della città, è il luogo elettivo della “grande decorazione”, come la definiva, con un’espressione a te cara, Mario Sironi. Sironi è artista sempre più rivalutato ed indagato, ma è anche un nome scomodo, e della sua attualità e problematicità si parla ben poco. Cosa si può apprendere, oggi, dalle vicende della sua generazione?
Come sai meglio di me, il paradosso è che anche durante il fascismo Sironi era un nome scomodo, il suo carattere, la sua modernità, persino la sua classicità declinata in chiave tragica, erano in fondo tollerate, quando non apertamente avversate. Credo che la storia stessa della decorazione italiana degli anni trenta sia la storia di una sconfitta, intendo dire al di là della dimensione politica e al netto degli opportunismi che hanno contraddistinto alcuni dei suoi protagonisti. Tutta l’epopea della decorazione tra le due guerre, mi riferisco non solo all’esperienza italiana, è nata per un misto di ragioni ideali e pratiche. Da un lato alcuni artisti mostrarono una crescente insofferenza verso il mercato dell’arte, per visione politica o per malessere esistenziale. Dall’altro, la crisi economica portò ad sperimentare politiche di sostegno pubblico nei confronti di coloro che non riuscivano a sostentarsi con la loro arte. Questo ha portato ad esiti qualitativamente molto disomogenei. Non ci si improvvisa pittori di cicli decorativi, come non ci si improvvisa committenti. Questo è un primo elemento di riflessione. Per immaginare un nuovo rinascimento, come vagheggiava la grande decorazione italiana, è necessario ci sia un nuovo umanesimo. Altrimenti la pittura murale si riduce a fare da grancassa ad un regime. Il problema è quindi la spaventosa mancanza di cultura. Non è un caso che la legge del due per cento sia stata clamorosamente disattesa in tutti questi anni.
L’antropomorfismo è sempre al centro dei tuoi interessi, anche quando realizzi opere plastico-architettoniche, tridimensionali. Qual è il suo spazio nell’arte d’oggi, e nella tua ricerca in particolare?
Dal mio punto di vista, il corpo offre una quantità di variabili espressive e concettuali che non ha eguali rispetto ad altri soggetti, che peraltro molto spesso assumono significato a partire dall’essere metafora della presenza umana. È il nostro stesso sistema percettivo che si attiva in maniera privilegiata di fronte ad una configurazione anche solo vagamente antropomorfa. In fondo è ciò che qualsiasi espressione artistica richiede al fruitore: l’attenzione. In base a queste premesse, il corpo, la sua messa in scena, avrà sempre uno spazio centrale nell’arte. Quanto a me, torno alla metafora dello specchio e al processo di riconoscimento-identificazione di cui ho accennato in un’altra risposta. La mia è una pittura introspettiva. Attraverso di essa cerco di conoscere me stesso, la raffigurazione è un efficace mezzo di conoscenza, potenzialmente terapeutico.
Il problema della committenza, delle occasioni propizie per collocare un’opera in uno spazio deputato, si ripresenta in ogni fase storica, e non conosce soluzioni definitive. Nelle diverse situazioni in cui vivi ed operi, vi sono segnali meritevoli, in positivo o in negativo, di attenzione?
Le situazioni sono molto diverse. Ovviamente la condizione ideale è che il committente entri in contatto con te perché apprezza il tuo lavoro e vuole che tu realizzi un’opera per lui. Anche in questo caso fortunato possono nascere problemi, ma se le tue competenze professionali sono adeguate alla dimensione ed alla complessità del progetto, tendenzialmente non ci sono sorprese negative. La committenza in sé non è un condizionamento eccessivo, è uno dei vincoli che rendono interessante il progetto, al pari del tipo di muro o della dimensione e conformazione degli spazi. L’importante è avere esperienza e autorevolezza. Può essere più difficile quando il rapporto con il committente è mediato da una terza persona. È un caso molto frequente. Spesso mi capita di esser chiamato da un architetto, che vuole inserire una mia opera in un suo progetto, e talvolta il committente non è del tutto convinto. In questi casi, se possibile, cerco di avere un rapporto diretto con lui. Se ci sono degli ostacoli, sono spesso imputabili al mio registro espressivo, che sovente viene giudicato un po’ eccessivo. Diciamo che mi preferirebbero più decorativo! L’esperienza, ancora più che il temperamento, mi ha insegnato che non è il caso di assecondare troppo le aspettative della committenza in questo senso. La forma di committenza legata ai concorsi è molto interessante, anche dal punto di vista didattico: spesso mi capita di partecipare a bandi pubblici o privati con un gruppo di studenti. Più in generale, mi ricollego a quanto dicevo prima. A parte la dimensione più commerciale della decorazione, il problema della committenza è un problema culturale, che è il riflesso di una situazione che investe la società nel suo complesso.
Sei artista ma anche docente, e molto attento ad integrare questi due aspetti del tuo lavoro. In quali incognite, valori, sorprese ci si imbatte, quando si lavora insieme a un gruppo di studenti? In che misura organizzazione e libertà espressiva coesistono e producono risultati?
L’accademia vive un paradosso. Per anni ha combattuto l’idea che come prerequisito necessario per essere ammessi ai suoi corsi ci fossero quello che una volta veniva definito il talento e una capacità nel disegno, frutto di un apprendistato sistematico. Una volta vinta la battaglia, che aveva delle ragioni che non voglio confutare, l’esame di ammissione si è il più delle volte trasformato in una formalità, mentre nelle università è accaduto l’opposto. Ne consegue che la realtà accademica odierna mette di fronte al docente un insieme di studenti eccezionalmente disomogeneo per la qualità delle competenze in loro possesso, che molto spesso si caratterizza per una scarsa alfabetizzazione sugli elementi primari del linguaggio artistico. È questa una premessa indispensabile per comprendere il motivo per cui, pur avendo io una formazione ispirata ad una dimensione espressiva dell’agire artistico (che per quanto concerne la decorazione si situa tra l’insegnamento di Ruskin e di Sironi), i miei laboratori si fondano principalmente sul metodo progettuale. In sintesi, organizzazione più che libertà espressiva, soprattutto nel percorso triennale. Può sembrare strano ma, in base al mio vissuto, l’esperienza di insegnamento nei licei artistici è più sorprendente, dal punto di vista espressivo e non di rado anche concettuale. Forse anche perché la scelta del corso di Decorazione è a volte dettata da una sorta di pragmatismo mal riposto, che vede nella disciplina una dimensione più rassicurante rispetto alla Pittura, secondo un luogo comune difficile da eliminare.
Quando le pubbliche amministrazioni cercano di interloquire con le giovani generazioni in tema di arte e spazio urbano, la Street Art sembra essere la prima, e spesso la sola risposta praticabile. Quali sono, a tuo avviso, i motivi della sua popolarità e le sue possibili criticità?
È un fenomeno complesso. Anche la domanda è articolata e richiede più di una risposta. Innanzi tutto, scusa la schiettezza, la ragione per cui le amministrazioni pubbliche vedono nella Street Art la modalità privilegiata, per non dire esclusiva, attraverso la quale affrontare il tema del decoro urbano, risiede principalmente nell’ignoranza degli amministratori. Un’ignoranza duplice. In primo luogo in merito alla realtà giovanile. In fondo ci può stare, per certi versi è sempre stato così. Alcune opere di writers realizzate in contesti ufficiali mi ricordano le messe beat degli anni sessanta: la stessa sensazione di incongruenza e (almeno ai miei occhi) la penosa perdita di decoro dell’istituzione mentre rincorre affannosamente il “nuovo”, tentando di compiacere i giovani che più o meno volentieri si fanno coinvolgere. L’ignoranza più grave è invece nei confronti dell’arte contemporanea, in particolare di quella che si occupa della relazione con l’architettura e con lo spazio urbano inteso in senso più ampio, comprese le contraddizioni sociali che esso esprime, delle quali, è forse il caso di ricordarlo, quelle riferite alle giovani generazioni sono solo una parte. Semplicemente, l’amministratore medio nel suo orizzonte culturale non ha posto per l’arte, non la capisce, ne è spaventato. E’ molto più rassicurato da “fatti visivi” che la città ha sedimentato ormai da tempo, predigerendoli. In fondo è principalmente questo che non amo del Writing. Non entro nel merito della sua dimensione sociale, è la forma che non ha più nulla di artisticamente sovversivo, né di intellettualmente stimolante, anzi, è esattamente ciò che ti aspetti di vedere in un qualsiasi contesto urbano. Per contro, la Street Art è una galassia di espressioni di cui il Writing è solo un aspetto, e una parte rilevante del muralismo contemporaneo proviene da questo mondo. Non di rado, si tratta di una pittura dagli esiti molto interessanti, ma altre volte indulge in un autocompiacimento tecnico che, complice il gigantismo che lo caratterizza, trova un facile e quasi unanime consenso. In quest’ultimo caso, dal mio punto di vista, essa non rappresenta un contributo di particolare rilievo, sia critico che estetico, al dibattito sulla funzione dell’arte nello spazio urbano. Vorrei dire che, come sempre, contano solo gli artisti e la qualità che sanno esprimere, al di là delle etichette.
In alto e sotto: Alberto Goglio fotografato mentre lavora a "Volto", settembre 2019.