Scorrendo le risposte date nei secoli alla domanda “Cos’è l’arte?”, ci imbattiamo in una fitta serie di affermazioni fatte da filosofi, letterati e, più avanti nel tempo, artisti: poeti, pittori, scultori, architetti, musicisti, attori. Non tutte sono ugualmente memorabili, ma rispondono a un reale bisogno di chiarezza.
A noi moderni, l’antichità ha tramandato due essenziali lezioni sui fondamenti dell’arte in Occidente: quelle di Platone e di Aristotele, i due filosofi posti da Raffaello al centro della sua Scuola di Atene. I pilastri dottrinali erano e restano quelli, anche se le idee che li innervano traggono forza da un’intera civiltà.
Nel mondo antico quelle che chiamiamo oggi “arti visive” non rientravano nemmeno fra le attività protette dalle Muse. Raffigurare Dei ed Eroi era un mestiere umile, addirittura servile. Ma una volta compiuta, l’opera sollevava questioni importanti, che trascendevano il suo autore. La diffidenza di Platone per l’arte non era né altezzosa né preconcetta. Egli sapeva che le immagini non sono affatto passive, anzi pervadono e giudicano chi le guarda. È il loro livello spirituale a influenzare il nostro, sono loro a disporre di noi e non viceversa.
Oggi, agli occhi degli addetti ai lavori, chi si interroga sull’arte è uno sciocco o un provocatore cui dare risposte evasive del tipo: “Ti chiedi ancora cos’è l’arte? Chiediti piuttosto dove va!”. Insomma, porre il problema in modo netto, assumendo che l’arte stia dov’è e non abbia bisogno di andare da nessuna parte, è un po’ come dichiararsi affetti da uno strano morbo. Che sia questo il nuovo scandalo, la nuova eresia?
In alto: mascherone architettonico, sec. XVIII, Scicli.