Pur occupando una posizione marginale, apparentemente fuori dal tempo, gli ornamenti corporei giocano un ruolo importante nella storia della decorazione. A partire da queste produzioni, essenziali nelle culture dell’antichità, gli studiosi hanno preso coscienza di quanto le origini dell’arte figurativa debbano all’ornamentazione corporea e ai suoi pattern compositivi.
La maggiore difficoltà di comprensione per noi, oggi, nasce dal fatto che, tra l’ornamentazione corporea come la si vive attualmente, e quella praticata nelle età premoderne, vi è un profondo divario di civiltà. Un divario che nessuna sopravvivenza, nessun revival, può completamente sanare. L’odierno approccio di massa ai monili, alla cosmesi, al tatuaggio, al piercing, è un fatto essenzialmente merceologico, e del mercato segue i meccanismi regolatori. Nelle epoche in cui la disponibilità di beni e di risorse era molto più scarsa, a primeggiare nella sensibilità collettiva erano – al di là dello status symbol e del suo corrispettivo economico – le categorie del magico, del sovraindividuale.
Anche l’uso maschile degli orecchini rispecchia questi mutamenti storici. Le due testimonianze, una pittorica ed una letteraria, che analizzeremo tra poco, ne mostrano una fase evolutiva cronologicamente vicina a noi, eppure depositaria di tradizioni remote. Ma procediamo per gradi.
Gli orecchini hanno alle spalle una tradizione millenaria, che, in alcuni momenti, vede il genere maschile addirittura oscurare quello femminile. Con l’industrialismo e la sua rigorosa disciplina organizzativa (istruzione scolastica, lavoro in fabbrica e in ufficio, leva militare obbligatoria), la tradizione dell’orecchino maschile entra in crisi, per rifiorire solo sul finire del secolo XX, per impulso delle culture giovanili e studentesche.
Anche senza scomodare marinai, pirati ed avventurieri, vi sono sempre stati ambienti in cui gli individui di sesso maschile hanno fatto un uso istituzionale, socialmente riconosciuto, degli orecchini, usati singolarmente o in coppia. Si pensi, per non andare troppo lontano, alle aree rurali e montane della penisola italiana e ai loro abitanti: non solo agricoltori e allevatori, ma anche pastori, artigiani, venditori ambulanti, mediatori d’affari. In questa umanità molto diversificata vi erano, ancora ad inizio secolo XX, individui di sesso maschile che continuavano a portare orecchini, e per le stesse motivazioni per cui uomini e donne se ne erano serviti in tutte le epoche e in tutte le aree geografiche.
Si tratta di motivazioni apotropaiche, legate alla buona sorte e all’auspicio di mantenersi in salute, scongiurando sia i mali del corpo, sia quelli dell’anima. I fori praticati nei lobi e gli orecchini ad essi appesi avevano la funzione di amuleti, e in particolare quella di impedire la penetrazione, attraverso i cavi auricolari, del malocchio, ossia l’influsso proiettato dallo sguardo malevolo di un estraneo. La stessa credenza, in versione rovesciata (non più proteggersi dagli occhi altrui, ma proteggere i propri), voleva anche che gli orecchini salvaguardassero la vista di chi li portava, mantenendola acuta nel tempo.
Analoghe motivazioni erano alla base anche degli orecchini femminili, con un’attenzione speciale per quei riti di passaggio – come l’ingresso nell’età fertile o “da marito” – che definivano la condizione della donna nel quadro familiare e sociale. Insomma, portare orecchini serviva in primo luogo a rimarcare fedeltà alle tradizioni, rispetto dell’ordine costituito, sintonia con il cosmo. Nelle società tradizionali e nelle vestigia che ne sono rimaste in vita fin dentro il nostro tempo, è sempre stato così.
Si capisce che, sotto la lente d’ingrandimento della modernità e del progresso scientifico, tutto ciò non poteva che essere etichettato come superstizione. Ma poteva anche succedere che il contadino impoverito, sradicato dai luoghi d’origine, si trasformasse di volta in volta in operaio, in vagabondo o in ribelle, e che, di conseguenza, i suoi vecchi amuleti si caricassero – agli occhi altrui – di significati nuovi, come nuove erano le dinamiche sociali in atto.
Le fonti principali per chi voglia approfondire questi temi sono, naturalmente, gli studi storici, antropologici e sociologici che hanno scandagliato le tradizioni popolari, spesso con inchieste condotte sul campo. Ma anche le arti figurative e la letteratura hanno qualcosa da dirci. Veniamo allora alle due testimonianze cui si accennava poco fa: un dettaglio del Quarto Stato (1898-1901) di Giuseppe Pellizza da Volpedo, e un passo tratto dal romanzo di Emilio De Marchi Demetrio Pianelli (1888). In questi due esempi, pittura e letteratura colgono lo stesso ornamento corporeo (gli orecchini maschili), dentro la stessa cornice geografica e storica (la bassa lombarda di fine ottocento).
Concepito e realizzato a Volpedo, paese natale di Pellizza, facendo posare familiari e conoscenti, Quarto Stato è il capolavoro della pittura italiana di argomento politico-sociale. Esso presenta in primo piano, alla testa del corteo di scioperanti, tre figure: due lavoratori ed una madre col bambino. Soffermiamoci sul lavoratore più anziano, con la camicia usata a mo’ di tasca e la giacca posata su una spalla. Si tratta di dettagli comportamentali estremamente pertinenti, che la dicono lunga sull’attenzione di Pellizza al mondo bracciantile e contadino. Ma vi è un altro particolare curioso: all’orecchio sinistro, l’unico visibile in quello scorcio prospettico, l’uomo porta un orecchino ad anello. Negli intenti allegorici del pittore, il circoletto metallico è evidentemente una spia – allo stesso modo della postura e dell’abbigliamento – della condizione antropologica di tanti lavoratori, raffigurati in bilico fra tradizioni ancestrali e nascente ideologia socialista ed operaia 〈1〉.
Demetrio Pianelli è, nel secolo XIX, uno dei migliori romanzi italiani di ambientazione cittadina e borghese. Così l’autore fa entrare in scena il protagonista Demetrio Pianelli, quando questi si reca a casa del fratellastro morto suicida, Cesarino, in Largo del Carrobbio a Milano:
«Mentre Cesarino era ciò che dicesi a Milano una cartina, di pelle fina e bianca, sempre pulito e aristocratico, questo signor Demetrio aveva l’aria d’un vecchio fabbro, vestito cogli abiti della festa. La pelle era cotta dal sole, rugosa: la fronte bassa coperta dai capelli che uscivano quasi a foggia di un tettuccio, di un colore rossiccio e duro come i baffi duri e rasati che coprivano un poco il labbro. Nelle orecchie arricciate come frasche di cavoli e qua e là rosicchiate dal gelo, aveva due anellini d’oro secondo il costume dei contadini della bassa Lombardia, che credono con ciò di evitare il mal d’occhi» 〈2〉.
A differenza del fratellastro più giovane, cresciuto in città e rovinato da un tenore di vita che non può permettersi, Demetrio è un contadino inurbato, abituato ad una vita di sacrifici. Costretto dalla miseria a lasciare la cascina in cui era nato, vive a Milano grazie a un modesto impiego all’ufficio del Demanio, ed ora il suicidio di Cesarino lo costringe a far fronte alle necessità di una vedova e di tre figli oberati dai debiti. Nella descrizione di De Marchi, gli orecchini svolgono un ruolo simile a quanto già visto per il lavoratore del Quarto Stato. Si tratta cioè di una spia che segnala – a chi legge il romanzo, ma anche ai parenti e ai colleghi di Demetrio – l’origine contadina del personaggio e, di conseguenza, la sua difficoltà ad integrarsi fino in fondo nel tessuto cittadino, acquisendone i modi e le sottigliezze. Da notare, per inciso, l’assonanza tra il “mal d’occhi” di De Marchi e il tradizionale “malocchio”.
Il paese del Quarto Stato, Volpedo, si trova ad una settantina di chilometri a sud di Milano, nell’alessandrino. A sua volta, De Marchi fa nascere Demetrio poco fuori Milano, in una cascina situata in direzione sud-est, verso Lodi. Siamo di fronte a due personaggi, il lavoratore del quadro e il protagonista del romanzo, dall’estrazione sociale molto simile. Per Pellizza come per De Marchi, gli orecchini maschili, benché ormai avviati al declino, erano oggetti ancora riconoscibili, e potevano quindi essere disseminati, come indizi qualificanti, all’interno di una descrizione più ampia.
L’ultima tappa di questo percorso ci porta nell’Italia del boom economico, negli anni sessanta del ‘900. In quell’Italia, sempre più operaia e impiegatizia e sempre meno contadina, gli orecchini maschili sono ormai un lontano ricordo, una curiosità folkloristica. È l’Italia in cui le famiglie si riuniscono davanti alla televisione, per guardare la trasposizione a puntate di romanzi famosi come Il mulino del Po, I miserabili, I fratelli Karamazov. Allo stesso regista di questi tre classici, Sandro Bolchi (1924-2005), si deve anche la riduzione televisiva del Demetrio Pianelli. Lo sceneggiato, trasmesso in quattro puntate nel 1963, vede nei panni del protagonista l’attore Paolo Stoppa. Il Demetrio impersonato da Stoppa è impressionante per l’esattezza con cui incarna la fisionomia letteraria tratteggiata da De Marchi. Unica differenza (ma solo chi conosce il romanzo può notarla), la mancanza degli orecchini.
Potremmo interrogarci sulle ragioni di questa scelta da parte del bravissimo Sandro Bolchi e dei suoi collaboratori. Tra l’altro, Bolchi era originario della città di Voghera, proprio nel cuore della pianura in cui si radicano sia il romanzo di De Marchi, sia il dipinto di Pellizza, e non poteva non conoscere egli stesso quella vecchia tradizione contadina. Evidentemente, gli orecchini maschili erano ormai una bizzarria che l’Italia del secondo dopoguerra aveva cancellato dai ricordi. Di più, essi avrebbero potuto avere sul pubblico televisivo un effetto controproducente, generando non immedesimazione ma perplessità, e proprio intorno al personaggio-chiave dello sceneggiato.
Col senno di poi, la scelta di Bolchi appare dunque logica e sensata: più che un’omissione, una licenza poetica. Cosa significassero gli orecchini di Demetrio Pianelli, il romanzo lo spiegava in due parole. Coi telespettatori, sarebbe stato impossibile fare altrettanto.
〈1〉 Chi scrive ha già segnalato e commentato questo dettaglio in un testo pubblicato una ventina d’anni fa. Vedi E.M. Davoli, Quarto Stato. La scena, i personaggi, il dramma, Edo Edizioni Oltrepò, Voghera 1999, pp. 46-47. 〈2〉 E. De Marchi, Demetrio Pianelli, De Agostini, Novara 1984, p. 86. In alto: Giuseppe Pellizza da Volpedo, Quarto Stato, 1898-1901, olio su tela, cm. 293 x 545, Milano, Museo del Novecento. Sotto: Michelangelo Buonarroti, Aminadab, 1511-12, affresco, Città del Vaticano, Cappella Sistina.