Chi non conosce Alphonse Mucha? Anche chi non ha particolare confidenza con le arti figurative, avrà potuto, una volta almeno, vedere riprodotta una sua opera grafica, magari ignorando che quella cifra stilistica così peculiare appartenesse proprio a lui. Ma è appunto il modo indiscriminato in cui le opere di Mucha vengono continuamente riproposte, a far sì che la vicenda biografica e creativa del grande artista ceco naturalizzato francese, vissuto tra il 1860 e il 1939, la cui fortuna si incardina nel clima e nelle vicende del periodo noto come Belle Époque, rischi spesso di passare inosservata. Quasi che le sue opere fossero non il prodotto di una personalità individuale, ma il segno di un generico esprit du temps. Si pensi in particolare alle immagini aventi come protagoniste giovani donne, che fanno bella mostra di sé su una vasta gamma di prodotti commerciali odierni, dai souvenir turistici alla regalistica.
Un’ottima occasione per riflettere sulla carriera di Mucha e sulla molteplicità dei campi in cui egli ebbe a operare, è stata la mostra bolognese svoltasi a Palazzo Pallavicini, tra il 29 settembre 2018 e il 20 gennaio 2019. La mostra, curata da Tomoko Sato, delineava la storia artistica di Mucha a partire dai suoi primi grandi successi, legati alla collaborazione con la grande attrice Sarah Bernardt (delle cui opere teatrali l’artista curava i manifesti pubblicitari), fino alle opere relative agli anni della maturità. Essa offriva al visitatore l’opportunità di mettere a confronto pezzi unici ormai celeberrimi, con una produzione meno nota, prevalentemente legata alla riproducibilità grafica e industriale in genere.
Gli anni a cavallo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX furono infatti caratterizzati da un’incidenza del progresso tecnologico, mai registratasi prima in quella scala di grandezza. In un contesto culturale e sociale in cui l’elemento decorativo era sempre più importante per connotare un prodotto, rendendolo prestigioso quanto desiderabile, non stupisce vedere calendari aziendali finemente progettati e decorati da Mucha in ogni dettaglio, allo scopo di celebrare sia il successo dell’imprenditore e della sua azienda, sia, più in generale, la ricca borghesia identificantesi nel nuovo stile artistico in voga.
Chi ha percorso le sale dell’esposizione bolognese, ha potuto toccare con mano come la decorazione fosse un elemento assolutamente centrale dell’attività artistica di Mucha. Egli lavorava a numerose committenze aziendali, creando, senza mai tradire la propria identità stilistica, l’apparato decorativo destinato ad abbellire le confezioni dei prodotti. È così potuto avvenire che, dopo il grande successo ottenuto tramite quei canali, diverse sue opere grafiche fossero poi riprodotte e diffuse in quanto tali, a mero scopo ornamentale, per abbellire le case dei borghesi.
Erano visibili in mostra anche alcune tavole tratte dalla raccolta Documents Decoratifs, pubblicata da Mucha tra il 1901 e il 1902. Il Mucha che emerge dai Documents Decoratifs, è una figura di professionista molto simile al moderno designer. Con questa vasta mole di invenzioni ed appunti, l’artista voleva rendere esplicito il proprio iter lavorativo, a partire dallo studio degli elementi naturali, come gli immancabili fiori, fino alla loro sintesi grafica ultimativa, per trarne dei motivi decorativi riproducibili con materiali e su supporti diversi. Da questo punto di vista, la varietà dei campi di applicazione escogitati da Mucha è davvero incredibile. Il che ci permette di vedere in lui l’artista che, forse meglio di ogni altro, ha incarnato il proprio tempo, quel tempo in cui lo stile che chiamiamo Liberty o Art Nouveau, pervadeva ogni ambito, dall’abbigliamento alla gioielleria, dal mobilio alla grafica, dalla decorazione parietale alle stoviglie e posate. Lo stesso Mucha, peraltro, concepiva i Documents Decoratifs come un manuale per artigiani, designers e studenti d’arte, proprio nella fase storica in cui, con l’avvento della produzione industriale, le scuole di arti e mestieri andavano fiorendo ovunque.
Ogni sfaccettatura del gusto dell’epoca era, insomma, ben documentata e riconoscibile nella mostra bolognese: lo storicismo, l’orientalismo, l’esotismo, il ruolo della figura femminile, fino alla rappresentazione delle caratteristiche psicologiche attraverso l’uso degli elementi naturali, problema che Mucha svolse così bene, ad esempio, nella serie Rose, Iris, Garofani e Gigli.
La mostra non aveva un catalogo ufficiale, ma proponeva diverse pubblicazioni edite in anni precedenti. Tra queste merita una segnalazione particolare, per la sistematicità e il respiro con cui ripercorre tutte le tematiche cui abbiamo accennato, il volume curato da Tomoko Sato Alphonse Mucha. In quest of beauty, edito nel 2015 dalla Mucha Foundation di Praga. Esso non si limita a ricostruire in modo esauriente il percorso dell’artista ceco, ma si apre anche ad una visione di respiro europeo, incentrata sul clima artistico-culturale del tempo, nella fitta rete di interconnessioni che lo caratterizzavano: dal linearismo di marca Art Nouveau in Europa continentale, allo stile peculiare dei “Quattro” di Glasgow, fino all’Aesthetic Mouvement in Gran Bretagna e al revival celtico.
In alto: Alphonse Mucha fotografato mentra lavora ad un manifesto pubblicitario, reclamizzante la stamperia Cassan (particolare), 1896. Sotto: Alphonse Mucha, Documents Decoratifs, tavole 61 e 64. Per tutte le immagini, courtesy Wikimedia Commons.