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L’ornamento nell’epoca del consumismo

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Abbiamo visto che vi è una ciclica usura dell’ornato, legata al mutare dell’idea di Decoro. Cosicché è frequente che un manufatto venga dismesso per il suo logoramento estetico, pur se strumentalmente ancora valido (si pensi alle automobili). Né deve stupire che nel Rinascimento si usasse la mobilia gotica come legna da ardere, o che nel ‘700 i soffitti barocchi venissero scialbati e ridipinti. Solo oggetti ormai privi di funzione civile, come ad esempio le ciabatte da casa o la vecchia bicicletta di scorta, sono esclusi da questo processo. Del tutto erroneamente, Loos scambia l’usura legata alla funzione civile per un tracollo ontologico dovuto alla presenza dell’ornamento. E trascura un dato già evidente ai suoi tempi, nell’età dell’imperialismo coloniale, e cioè: l’usura estetica di un oggetto procede di pari passo con la sua diffusione commerciale.

L’iperproduzione industriale è un fiume in piena diretto verso un mercato che dev’essere grande come il mare: quando la sua corrente non trova sbocco adeguato, allaga piazzali e magazzini di prodotto invenduto. Riprendendo l’esempio già noto delle camicie: la grande quantità di camicie lisce, tutte bianche, prodotte dall’industria, satura ben presto il mercato, cosicché l’anno successivo, per riuscire a venderne almeno altrettante, occorrerà produrne di gialle. Qui entra in gioco la funzione civile: per una cerimonia posso reimpiegare la vecchia camicia bianca di mio padre; per andare in discoteca, invece, non potrò più indossare la camicia a fiori dello scorso anno, anche se di ottima qualità e quasi mai usata, perché quest’anno vanno di moda (moda è il grado minimo in cui si esplica il Decoro) le righe.

Gustav Klimt, Manifesto per la porima edizione della Secessione Viennese (particolare), 1898, litografia.

Nella logica consumistica della grande industria, è proprio l’ornamento (reinventato attraverso forme inusuali e mutevoli, gamme cromatiche sgargianti, accessori improbabili) a rendere remunerativa la produzione di oggetti che, se banalmente lisci, ben presto saturerebbero il mercato. Un esempio: negli anni sessanta del ‘900 i cosiddetti “oggetti di design”, concepiti almeno in teoria secondo i dettami di Loos – lisci, essenziali, seriali, stampati in materiale plastico, insomma spocchiosamente moderni, dunque, sempre in teoria, democratici e popolari – risultavano talmente costosi da assurgere a status symbol per le élites economiche. La profezia loosiana secondo cui il consumatore avrebbe volentieri speso per un oggetto di qualità il quadruplo che per uno scadente, si era sì avverata, ma in relazione all’aspetto esteriore dell’oggetto, ossia al suo Decoro, e non, come pronosticava Loos, alla sua prospettiva di utilizzo nel tempo. Vendetta postuma della decorazione? Quel che è certo è che il prezzo di un oggetto dipende dall’equilibrio di domanda ed offerta, e l’aspettativa di Decoro influisce su tale equilibrio ben più che l’aspettativa di qualità e di durata.

Una volta inquadrate nella logica del Decoro, anche le cosiddette “oscillazioni del gusto” sono facilmente spiegabili. Se si nega questo presupposto, come hanno fatto i teorici delle “bianche muraglie”, esse appaiono invece come misteriosi fenomeni antropologici, espressione di “ritardatari” ostili all’“inarrestabile evoluzione della società”. Del resto è proprio l’ornato canonico ad aver salvato intere categorie merceologiche dalla discarica. E’ improbabile che un mobile intagliato, una coperta ricamata, un lampadario in ferro battuto, vengano gettati a cuor leggero. Il plusvalore sostanziale dato non dalla moda effimera, ma dall’invenzione artistica e dall’abilità del decoratore, viene riconosciuto e premiato nel tempo.

In alto: una scena dal film di Jacques Tati "Mon oncle" (1958). Sotto: la sedia a dondolo di Monsieur Arpel nel film di Jacques Tati "Mon oncle" (1958).
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