“Mari, lei non stima i suoi colleghi. «Nani… ballerine. I designer sono i primi tra i miei nemici.» Perché? «Il 95% è totalmente ignorante. Sono dei piccoli robot che accettano come valore solo il mercato.» Vendo dunque sono? «Poi c’è un 5% che capisce, ma cinicamente accetta le distorsioni dello stesso mercato: oggetti costruiti per durare solo qualche mese… Non servono a chi li acquista, ma a chi li produce per fare profitto. È legittimo, ma non si riempiano riviste e volumi per dire che questi lavori contengono qualcosa di cui la società ha bisogno.» Non si salva nulla? «Da trent’anni si producono oggetti di design che hanno l’unico scopo/caratteristica di sembrare diversi uno dall’altro. Nulla di nuovo.» Che caratteristiche dovrebbe avere un oggetto di design? «Io ho sempre messo alla base della mia ricerca la bellezza della forma. E l’idea di standard.» L’idea di standard? «Oggetti che vadano bene per tutti, anche per chi li fabbrica, e che non passeranno mai di moda». 〈1〉“
Ad esprimersi in questi termini non è un nostalgico cultore del passato ma un protagonista del design italiano, Enzo Mari. Dunque, un maestro dell’utopia antiornamentale novecentesca smentisce recisamente la profezia loosiana di cent’anni fa secondo la quale la morte dell’ornamento avrebbe propiziato la creazione di oggetti fatti per durare e fatti per tutti, con più qualità e a minor costo. L’Utopia è diventata Distopia. Oggi le critiche incendiarie di Loos calzerebbero a pennello agli innumerevoli oggetti “non-si-sa-bene-cosa” fatti in stile Starck, Mendini, Arad, e chi più ne ha più ne metta. Il tutto mentre imitazioni e reinvenzioni, altrettanto improbabili ma economicamente più accessibili, di questi stessi oggetti, spopolano sugli scaffali Ikea.
Ma attenzione: Mari denuncia, atteggiandosi a vecchio saggio, errori e limiti macroscopici del Design di oggi. Ma chissà perché, evita di interrogarsi sulla alienazione di fondo che attanaglia il Design fin dagli anni sessanta-settanta del ‘900, nel momento in cui esso si arrende senza colpo ferire alle parole d’ordine imperanti della “dissacrazione”, della “de-realizzazione” e dell’“ironia” (leggi “esigenze di mercato”). In quegli anni si assiste infatti alla rinuncia a qualunque idea di Decoro vada al di là dell’epifania minima chiamata “moda”, del singolo episodio che “fa tendenza”. Il design internazionale alza bandiera bianca di fronte all’ondata pop, minimalista, concettuale, citazionista, per non ammainarla più. E diventa duchampiano per l’eternità, dimenticando che la salvezza dell’industria artistica sta nel produrre orinatoi che siano orinatoi, sgabelli che siano sgabelli e scolabottiglie che siano scolabottiglie, e che lo “scarto” continuo e reiterato, lungi dal produrre novità, è il più rovinoso dei luoghi comuni. Se tutto è Neo- o Post-, se tutto si riduce alla firma, poco importa far parte, per dirla con Mari, del “95% totalmente ignorante” o del “5% che capisce”. Il prossimo sgabello, la prossima linea di piastrelle, perfino il prossimo grattacielo portano già la firma di uno stilista di moda o di una popstar. Nell’illusione sempre più tenue che ciò possa ridare fiato all’economia e al mercato.
〈1〉 Enzo Mari intervistato da Vittorio Zincone in occasione dell'uscita del suo saggio-autobiografia 25 modi per piantare un chiodo (Mondadori), in «Sette-Corriere della Sera», aprile 2011.
In alto: la casa di Monsieur Arpel nel film di Jacques Tati "Mon Oncle" (1958). Sotto: Enzo Mari, Sedia a dondolo, 2001, Wien, Thonet (www.ideamagazine.net).