Abbiamo spesso stigmatizzato la palese indecorosità dell’architettura contemporanea, analizzandone e criticandone, di volta in volta, sia i presupposti ideologici, sia gli esiti finali così come si presentavano ai nostri occhi. È giunto ora il momento di affrontare la questione da un punto di vista più concreto, che si soffermi anche sull’indecorosità di cui soffre l’arte contemporanea nel suo insieme, quando si cimenta sul palcoscenico dell’architettura. Lo esigono sia il fine operativo che questa rivista si è dato, sia, più in generale, un dovere di chiarezza e di onestà intellettuale.
Il nostro ragionamento potrebbe riassumersi nel seguente assunto: la competenza dell’architetto sul decoro finale dell’edifico arriva fino ad un certo punto, oltre il quale è necessario l’intervento di un’altra figura. È vero che la storia dell’arte ci presenta molti casi che sembrano contraddire questa regola: tra gli esempi a cui più frequentemente si pensa, giganteggiano figure come Michelangelo Buonarroti, Gian Lorenzo Bernini, Antoni Gaudì. Tuttavia è chiaro a tutti, vuoi per esperienza quotidiana, vuoi in base all’opinione corrente che su di essa si modella, che l’elasticità creativa di un architetto, una volta affrontati e risolti i macro-problemi compositivi dell’edificio, ha ormai toccato un limite di sollecitazione e di affaticamento, oltre il quale gli sarà difficile spingersi. Anche per questo si rende necessario l’intervento di una figura specializzata. Al di là delle importanti eccezioni consegnateci dalla storia dell’arte, la staffetta architetto-decoratore è in realtà la regola per ogni edificio di pregio arrivato fino a noi.
Ecco perché urge far luce sullo specifico ruolo professionale del decoratore contemporaneo. Un primo punto va subito chiarito: il decoratore è, tecnicamente parlando, pittore o scultore; un pittore o uno scultore, invece, non sono necessariamente decoratori. Il decoratore è quindi un artista, ovvero colui che, nelle due o nelle tre dimensioni, servendosi di pigmenti o sbozzando volumi, è portatore di una poiesis. Ma occorre che egli conosca e pratichi il linguaggio dell’architettura, per poter intervenire in modo pertinente sull’articolata composizione messa a punto dal progettista. Ed occorre anche che egli sappia padroneggiare una serie di strumenti specifici – vale a dire il repertorio ornatistico – che il pittore o lo scultore “puri” non sono tenuti a conoscere. Si avrà quindi, da un lato, il linguaggio dell’architettura, dall’altro, quello delle arti figurative; a metà strada, una sorta di interprete – il decoratore appunto – capace di fondere i due linguaggi, altrimenti irriducibili l’uno all’altro.
Il linguaggio specifico della decorazione è il repertorio ornatistico. In quanto struttura linguistica autosufficiente, dotata di regole che possono essere studiate ed apprese, tutti gli artisti hanno facoltà di impiegarlo, nel momento in cui devono inserire le loro opere nello spazio urbano. La statuaria e la pittura celebrativa ottocentesche ci forniscono moltissimi esempi di applicazione di procedure ornatistiche, per contestualizzare opere pittoriche o scultoree in ambito architettonico. Lo stesso Michelangelo, dedicandosi alla Cappella Sistina, procedette in primo luogo all’inquadramento architettonico delle sue figure; tale inquadramento altro non era, appunto, che una procedura ornatistica. Occorre però distinguere chiaramente tra l’uso occasionale dell’ornatistica da parte del pittore o dello scultore, e l’ambito di competenza specialistico, che è proprio del decoratore. Nel primo caso, si fa ricorso ai termini del linguaggio architettonico per contestualizzare un’opera singola, concepita separatamente e destinata a vivere di vita propria. Nel secondo, invece, si è in presenza di un artista specializzato, il cui compito consiste nel rivisitare, passo dopo passo, il percorso dell’architetto, sottolineando o dissimulando a seconda dell’opportunità, questo o quell’aspetto, per assicurare il decoro dell’intero edificio. Il secondo dei due casi è quello di cui qui ci occupiamo, ma entrambe le posizioni, se correttamente interpretate in tutti i loro passaggi intermedi, sono pienamente legittime.
A questo punto, la conoscenza del linguaggio architettonico rappresenta la premessa ad ogni ulteriore ragionamento. Ma cosa si deve esattamente intendere per linguaggio architettonico? Ricordiamolo in estrema sintesi: l’architettura ha un suo dialetto, una lingua nativa modellata sull’estetica dei materiali costruttivi, tale per cui, ad esempio, un moderno edificio in cemento armato risulta essere profondamente diverso dal suo antenato fabbricato in legno. Su tale dialetto prende corpo la lingua propria dell’architettura, che ne disciplina i caratteri generali: dalla fisionomia delle facciate alla composizione dei volumi, dalla disposizione ritmica delle aperture alla quantità e qualità degli elementi di sostegno. Eredi di questa lingua, gli architetti rinascimentali misero a punto una lingua aulica, che riprendeva e distillava gli elementi topici propri dell’architettura templare grecoromana. Tale lingua divenne, in toto, patrimonio dalla decorazione. Per secoli, quello della decorazione è stato il linguaggio comune alle arti, ed ha dato luogo ad una tradizione di dialoghi, anche molto complessi e raffinati, fra gli architetti e gli altri artisti.
Ora, l’abbandono da parte della cultura novecentesca del linguaggio aulico rinascimentale – questione peraltro ancora aperta, e sulla quale siamo più volte intervenuti – non giustifica comunque l’ignoranza o la sottovalutazione, da parte degli artisti contemporanei, del linguaggio specifico dell’architettura. Una parete di cento metri quadri, anche se totalmente liscia, non può essere interpretata come se si trattasse di una grande tela. Una cosa è il quadro da cavalletto, altra cosa è una superficie muraria esterna. Il quadro si rapporta con lo spazio astratto dello studio e con l’idea dell’artista. La superficie muraria appartiene ad un edificio la cui logica architettonica esige di essere approfondita, e questo a sua volta insiste su un contesto urbano, che deve essere adeguatamente interpretato. Stesso discorso, spalmato in orizzontale, vale per la scultura. Le arti figurative contemporanee risultano quasi sempre “abusive” nello spazio urbano, proprio perché incapaci di dialogare con l’architettura. Questa incapacità è assimilabile ad una patologia, le cui manifestazioni si configurano come vere e proprie sindromi, che esasperano l’incongruità dell’opera rispetto all’ambiente in cui la si è collocata. In questo senso, sarebbe auspicabile un’opera di alfabetizzazione degli artisti, in relazione sia al linguaggio dell’architettura, sia alla specifica tecnica ornatistica, la quale consente di integrare nello spazio urbano anche opere dalla poetica originale ed autonoma.
Ma c’è dell’altro, perché, al di là delle manchevolezze degli architetti contemporanei (simmetrica a quella degli artisti) quanto al linguaggio della decorazione, l’architettura d’oggi soffre di un proprio peculiare problema strutturale. Le complesse problematiche dell’edilizia, divenuta un labirinto di norme, standard tecnologici, funzioni accessorie, sono tali che oggi, di fatto, il progettista giunge alla chiusura del proprio lavoro totalmente stremato. In queste condizioni, egli non potrà dedicare alla parte più importante per la comunità, cioè il decoro dell’edificio, che un’energia mentale molto residuale. A maggior ragione, diventa dunque fondamentale, in questo contesto, reintrodurre la figura di un professionista del decoro che, subentrando a mente fresca sul progetto concluso, possa ripercorrerne la genesi, evidenziando ed esaltando le intenzioni del progettista e le potenzialità dell’opera, con gli strumenti artistici ed ornatistici che gli sono propri.
Per sgomberare il campo da equivoci veterorazionalisti, va subito detto che la figura professionale del nuovo decoratore, quale la auspichiamo, dovrà essere molto versatile. In altre parole, gli stilemi del linguaggio classico della decorazione rinascimentale rappresenteranno solo una delle opzioni possibili, in quanto il linguaggio dell’architettura contemporanea richiede interventi di decoro appositamente pensati ed elaborati. La via rinascimentale al decoro architettonico rimane invece valida, in sé e per sé, come paradigma operativo. La rigida regolamentazione della cantieristica contemporanea, infatti, fa sì che il problema del decoro possa essere affrontato solo a progetto esecutivo concluso o, addirittura, ad edificio già consegnato, come si dice, “al grezzo”. L’idea romantica dell’artista-artigiano medioevale, che decora l’edificio mentre ne costruisce la struttura, è oggi totalmente improponibile.
In alto: Antoni Gaudì, piastrella pavimentale esagonale (lato cm. 5) progettata per Casa Milà, poi impiegata per il Passeig de Gracia, Barcellona, 1904. Sotto: Laszlo Moholy-Nagy (su progetto di), tinteggiatura del foyer dell'edificio del Bauhaus a Dessau, architetto Walter Gropius, 1926 circa, restauro 1998-2006 (foto © Morgan Ridler).