In un precedente intervento dal titolo Poiesis e techne 〈1〉, abbiamo affrontato l’idea di arte cercando di isolare alcuni concetti-chiave, molto chiari sulla carta, ma, sul piano pratico, soggetti ad interpretazioni alquanto contraddittorie e confuse. Torniamo nuovamente sulla distinzione fra poiesis e techne, affrontando stavolta il tema da un punto di vista concreto ed operativo, e proponendo la sostituzione dei due termini di cui sopra, con definizioni più vicine al linguaggio corrente. Lo scopo è quello di consentire una chiara ed intuitiva distinzione di ambiti nella pratica quotidiana, mettendone in luce le conseguenze implicite.
Arte del fare
Possiamo tradurre la parola greca techne (τέχνη) con l’espressione italiana “arte del fare”. Arte del fare è quella che, secondo il dettato platonico, ha lo scopo di portare a buon fine la cosa di cui ci si occupa. Ecco allora che, come scrive Platone nella Repubblica, l’arte del timoniere consiste nel saper portare la nave salva in porto, l’arte del medico nel preservare la salute del paziente, l’arte del pastore nell’avere un gregge ben pasciuto e numeroso, e così via 〈2〉.
La prima, evidente implicazione cui si va incontro, è che l’approccio all’arte del fare non può che essere di natura gerarchica: chi sa, fa; chi non sa, deve astenersi, pena il fallimento. La seconda implicazione consiste nel fatto che, a tutte le problematiche pertinenti all’arte del fare, si può fare fronte solo avendo acquisito le conoscenze necessarie: ossia tramite scuole, apprendistati, sperimentazioni, eccetera.
Vi è però un altro aspetto, che ci riguarda più da vicino. L’arte dell’architetto – perché di arte si tratta – ha come fine la costruzione del buon edificio, ma egli non è tenuto ad erigerne i muri, per i quali si avvale dell’arte del muratore. In altre parole, l’arte del fare impone una responsabilità “ontologica” sul risultato, ma non comporta sempre e necessariamente un intervento fisico nella sua realizzazione. Di fronte a obiettivi complessi, quali appunto la costruzione di un edificio, l’artista incaricato diventa un capocordata, che organizza dietro di sé altri artisti per le specifiche lavorazioni necessarie al raggiungimento del fine, di cui egli è e rimane l’unico responsabile. Questa diramazione rispetto al percorso logico principale non è certo una novità, in quanto la si incontra quotidianamente, nella prassi di ogni giorno. Ma a sua volta, essa comporta due ulteriori passaggi logici che, nel campo della decorazione, hanno originato non pochi equivoci.
In primo luogo: parlare di responsabilità “ontologica” significa affermare che l’artista pubblico incaricato (architetto, scultore, decoratore, designer, eccetera) ha la responsabilità esclusiva di portare l’opera a buon fine. Ma questo “buon fine” è esso stesso di natura “ontologica”. Vala a dire che l’opera deve risultare opportuna, conveniente e giusta rispetto a tutti i vincoli presenti in partenza, cioè i limiti economici, ambientali, culturali, estetici, sociali, eccetera, entro i quali essa va a collocarsi. Tornando alla metafora nautica di Platone: arte del timoniere è sì quella di portare la nave in porto, ma con l’impegno tassativo di far giungere sani e salvi a destinazione anche i passeggeri ed il carico imbarcati su di essa. Un impegno che, quando ci si occupa di arte pubblica, viene troppo spesso trascurato e frainteso. Il mito moderno di un “ben eseguito” tecnologicamente impeccabile e all’avanguardia, inteso come virtù sufficiente al buon fine di qualsiasi cosa, ha riempito le nostre città di edifici e manufatti di vario genere, spesso totalmente improbabili, improponibili e impresentabili sotto ogni altro aspetto che non sia, appunto, quello meramente tecnologico. Insomma, è di fondamentale importanza ribadire che l’artista del fare deve avere ben chiaro il perimetro di ciò che è “buon fine”, e tanto più quando si tratti di opera pubblica.
In secondo luogo: se l’artista del fare è il responsabile esclusivo del buon fine dell’opera, saranno di sua esclusiva competenza anche i modi in cui sceglierà di agire, gli strumenti di cui si vorrà servirsi, le collaborazioni di cui si avvarrà. Apparentemente ovvio nella teoria, questo assunto si scontra nella pratica col persistente mito romantico, dal sapore quasi feticistico, secondo il quale è vera arte solo quella la cui esecuzione sia direttamente riconducibile alla mano dell’artista. Nell’arte pubblica non è affatto così, e non lo è mai stato neanche in passato, quando la realizzazione di un’opera era un processo prettamente manuale. Il buon fine è sempre stato raggiunto tramite l’apporto di una pluralità di specialisti (e quindi di “mani”), organizzati in un cantiere o in una bottega. Né le cose sono diverse nel campo dell’arte privata. Lo scultore è responsabile del buon fine dell’opera, ma nel caso in cui questa debba essere eseguita in bronzo, egli dovrà avvalersi della collaborazione di artisti specializzati nella fusione. Così come per l’architetto, la sua arte gli impone di gestire tutti i processi necessari al compimento dell’opera, ma non necessariamente di curarne in prima persona ogni fase. Si tratta di una questione annosa, molto dibattuta in passato, ma che l’introduzione di ritrovati tecnologici nuovi e sofisticati, quali le stampanti 3D, ha fatto tornare in auge. Proprio per questo vale la pena di soffermarvisi brevemente.
Sul piano dell’arte del fare, le nuove strumentazioni tecnologiche non comportano alcun reale mutamento di prospettiva. Eppure, tali strumentazioni sono oggetto di un culto che sconfina nell’isteria collettiva, al punto che oramai nulla sembra si possa fare senza di esse. Dal punto di vista della decorazione (che, oltre all’ambito proprio dell’arte pubblica, include anche il vasto settore della manifattura artistica: artigianato e industria artistica, design, architettura d’interni, eccetera), cosa convenga realizzare a mano e cosa invece con una stampante 3D, è questione tutta da dibattere, e la cui soluzione può variare a seconda dei casi. Le stampanti 3D risultano lente, costose e imprecise quando ci si deve misurare con grandi dimensioni e con materiali diversi da quelli polimerici, ragion per cui, di fronte ad un pezzo unico dalla forte connotazione “artistica”, i sistemi di realizzazione tradizionali risultano spesso molto più rapidi ed economici. Al tempo stesso è evidente che, in presenza di produzioni seriali o prototipi industriali, le stampanti 3D diventano essenziali, anche in considerazione della loro simbiosi con la progettazione informatizzata.
Non andiamo oltre su questa strada, che ci porterebbe troppo lontano dal nostro ragionamento iniziale. Quello che ci preme sottolineare è che l’uso di particolari attrezzature tecnologiche da parte dell’artista, non toglie né aggiunge nulla al valore dell’opera conclusa, purché essa venga portata a buon fine. L’auspicio è che tutta la questione possa essere reimpostata in modo chiaro, sgomberando il campo dai veti incrociati, di natura sia “tecnicistica” che “idealistica”, che ne hanno fin qui impedito uno studio serio e approfondito. L’unico capace di produrre risposte artisticamente valide.
Arte del creare
Possiamo tradurre la parola greca poiesis (ποίησις) con l’espressione italiana “arte del creare”. E di creazione effettivamente si tratta. Trarre una cosa, come scrive Platone, «dal non essere all’essere» 〈3〉, significa infatti creare ex novo una forma, traendola da quelli che in un precedente articolo, alludendo a quell’area del pensiero umano che si potrebbe definire pre-logica, abbiamo chiamato «livelli superiori della cultura» 〈4〉. Metafisica, culture esoteriche, misticismi religiosi o laiche intuizioni, ma anche spiritismi e satanismi – perché nel pre-logico si può sia salire che scendere – sono i sentieri che attraversano il territorio del non essere e che l’artista del creare deve percorrere se vuole trovare ciò che cerca. Da parte nostra, consigliamo di procurarsi mappe molto dettagliate sui possibili itinerari e, pur non volendo addentrarci in tali sentieri, cercheremo ugualmente di fissare alcuni concetti-chiave.
Dunque, anche l’artista del creare ha una responsabilità ontologica rispetto al buon fine della propria arte, responsabilità che consiste, appunto, nel creare una nuova forma. Dunque non una forma qualsiasi, ma bensì una forma buona, opportuna e giusta, perché dovrà essere condivisa, generando identità sul piano culturale e modelli estetici su quello produttivo. È quindi opportuno parlare di creazione e non di creatività, in quanto il primo termine implica la responsabilità ontologica dell’artista-creatore, il secondo riduce tutto ad una irresponsabile attività ludico-ricreativa. La creatività si applica ai modellini fatti coi fiammiferi o ai fiori in pasta di sale, che sono “strani” e “carini”, ma non può certamente essere posta alla base di distretti produttivi importanti come la manifattura artistica o la decorazione architettonica che, invece, necessitano del bello. La nuova forma non è per sé ma per gli altri, e deve produrre l’attrazione magnetica di cui Platone parla nello Ione 〈5〉. Insomma, l’opera nella quale la forma s’incarna deve calamitare l’attenzione. Sulla base di questo magnetismo, e all’atto della sua ricaduta sui manufatti di uso quotidiano, si possono misurare il suo impatto culturale ed economico.
In passato abbiamo già analizzato le influenze, sul piano del decoro, delle forme nuove create da Kandinskij e Mondrian 〈6〉. Le loro poetiche ci aiutano a far luce su quanto stiamo dicendo. Qualunque cosa si pensi della Teosofia, non vi è dubbio che fu in quel crogiolo che tali poetiche si formarono. Diversamente, entrambi gli artisti sarebbero rimasti ordinari pittori di genere. Il paradosso dell’arte del creare è tutto in questo dato storico. Fa parte dell’esperienza di ogni artista-creatore (musicista, pittore o altro) scoprire con sconcerto che l’ultima opera portata a termine non è necessariamente migliore delle precedenti. Nell’arte del fare, invece, l’opera successiva è sempre migliore della precedente, perché il livello di capacità e abilità aumenta costantemente. Frequente è il caso di artisti le cui opere vengono giudicate ora bellissime, ora vuote e ripetitive, nonostante la loro innegabile maestria. Di solito, di fronte a questo paradosso, l’analisi segna il passo. Noi vorremmo invece tentare l’azzardo di andare oltre.
Proviamo allora a descrivere la poiesis come una sorta di vibrazione. L’atto creativo può essere immaginato come un effetto di risonanza: l’anima dell’artista-creatore si accorda sulla lunghezza d’onda della vibrazione che riceve dai livelli superiori dello spirito, per sintonizzare poi su questa le vibrazioni successive che dovrà trasmettere attraverso il corpo, cioè la materia con la quale realizzerà l’opera. Abbiamo usato la tripartizione scolastica in Spirito, Anima, Corpo, perché familiare alla nostra cultura, ma potremmo ricorrere anche a una metafora musicale. Si può parlare infatti di accordo armonico di vibrazioni fra questi tre livelli, accordo che si esprime attraverso l’opera. Opera che, se ben composta, porta, per risonanza, a far vibrare l’anima dei fruitori. Tale meccanismo, ormai desueto nel campo di quelle che oggi si chiamano arti visive, è ancor oggi familiare al compositore musicale, il quale deve via via rassegnarsi al fatto che, pur avendo scritto centinaia di motivi diversi, pochissimi o addirittura uno solo siano riusciti ad entrare nella top ten degli ascolti.
Se la vibrazione è il concetto-chiave e l’armonia e la risonanza ne sono le conseguenze, allora si chiarisce il paradosso teosofico alla base delle poetiche di Kandinskij e Mondrian. Un artista che oggi aderisse alla Teosofia non avrebbe nessuna garanzia di arrivare ai livelli poetici dei due maestri. Il che dimostra che ogni teoria o filosofia di cui un artista creatore si serve, è sempre strumentale alla ricerca della vibrazione che la forma da lui creata deve trasmettere. Come la bacchetta per il rabdomante, non può non esserci, ma fine della ricerca non è la bacchetta, bensì l’acqua. Con ciò si spiega anche l’abisso esistente fra il misticismo dell’arte bizantina, la meraviglia dell’arte barocca e l’imbarazzo della sedicente arte sacra contemporanea. A parità di principi teologici, mutano, fino a svanire del tutto, le vibrazioni percepite e prodotte dagli artisti.
Le vicende artistiche di Kandinskij e Mondrian ci aiutano a cogliere anche un altro aspetto importante. È vero che fu l’adesione alla Teosofia a determinare la vibrazione-guida della loro ricerca poetica, ma, concretamente, entrambi gli artisti trassero la forma finale dalla revisione del loro precedente lavoro. A questo proposito, come non ricordare il celebre aneddoto autobiografico di Kandinsky, che intuisce le potenzialità dell’arte astratta osservando un proprio quadro casualmente capovolto nello studio? Insomma, l’atto creativo si attua tramite il matrimonio fra la forma intuita attraverso la vibrazione spirituale percepita, e le forme materiali in uso da parte dell’artista. Ogni artista del creare, cioè, ha un proprio territorio di caccia o, meglio, una propria valigia, nella quale conserva le forme che gli sono care. È proprio rovistando fra tali forme, che egli trova l’intuizione in grado di coniugare la giusta forma concreta con l’astratta vibrazione percepita dai livelli superiori.
Abbiamo fin qui spiegato cosa compete all’arte del fare (techne) e cosa all’arte del creare (poiesis), evidenziando anche le opposte regole che governano i due ambiti. Ma chi opera nel primo ambito e chi nel secondo? Su questo punto, il dettato platonico si fa sibillino, come si evince dal celebre passo del Simposio in cui Socrate spiega all’interlocutore: «“Tu sai che la creazione è qualcosa di molteplice. Infatti, ogni causa per cui ogni cosa passa dal non essere all’essere è sempre una creazione; cosicché le produzioni che dipendono da tutte quante le arti sono creazioni, e tutti gli artefici di queste cose sono creatori”. “Dici il vero”. “Però […] sai che non sono chiamati tutti creatori, ma hanno altri nomi e che una parte distinta da tutta intera la creazione, ossia quella che riguarda la musica e i versi, viene designata con il nome dell’intero. Solamente questa viene detta creazione, e coloro che posseggono questa arte della creazione sono detti creatori”» 〈7〉.
Cerchiamo di fare chiarezza. Il timoniere, il medico e il pastore hanno in comune una cosa: per portare a buon fine la loro arte del fare non devono ricorrere alla creazione di una forma. Vi sono però altri artisti del fare, che debbono creare una forma per portare a buon fine la loro opera. L’arte del falegname, per esempio, non consiste nel tagliare bene il legno, ma nel fabbricare un letto, che necessariamente deve seguire una buona forma, mentre robustezza, utilità e comodità non sono che semplici prerequisiti. Tutti noi diamo per scontato che un letto abbia queste qualità, per cui la scelta del modello da acquistare verterà essenzialmente sulla sua forma, ritenuta più o meno bella. Vale la pena sottolineare che il bello, nel linguaggio corrente, non indica un concetto filosofico astratto, ma una concreta vibrazione positiva che una certa forma trasmette, cosicché vale la pena di includerla nel proprio ambiente di vita.
Nel linguaggio corrente, con la parola “poeta” si designa chi compone versi, con la parola “artista” chi dipinge o chi compone musica. Artigiani sono, a loro volta, tutti coloro che producono direttamente manufatti, mentre si definiscono designer, architetti e ingegneri coloro che operano nell’ambito della produzione industriale. Tali definizioni, funzionali ad una classificazione giuridica delle categorie professionali, generano però confusione sul piano ontologico, perché tutti costoro vedono la poiesis intromettersi pesantemente nella loro attività, generando profondo imbarazzo. Parafrasando il Simposio platonico, si potrebbe affermare che la forma compete agli artisti, ma molti sono gli artisti, anche se pochi portano questo nome. Chiunque, nella propria attività, incroci la poiesis, deve prendere atto che essa appartiene all’arte del creare, che ha proprie gerarchie, leggi e regole, da conoscere e rispettare, pena il fallimento dell’opera proprio nella sua qualità essenziale. È vero tuttavia anche il contrario: chiunque si dedichi esclusivamente alla ricerca sulla poiesis, deve avere la consapevolezza che, non coniugando tale ricerca con l’arte del fare, tutto il suo lavoro resterà allo stato di ghiribizzo, di volo pindarico.
Crediamo non sia possibile andare oltre, senza scadere in fantasiose congetture. Il tema è insidioso, ed occorre tirare le somme. Possiamo paragonare gli artisti del creare ad un gruppo di cercatori di funghi, che di buon mattino si ritrovano ai piedi di una collina. Sulla carta, essi partono in perfetta parità, perché nessuno ha la certezza di tornare, la sera, col cestino pieno. La differenza fra principianti ed esperti consiste nel fatto che mentre i primi vagano affidandosi essenzialmente alla fortuna, i secondi conoscono già i luoghi dove più alte sono le probabilità di fare bottino, e li tengono segreti. Per gli uni come per gli altri vale una regola universale: se si vuole fare un buon raccolto, occorre indossare gli scarponi e avviarsi di buon’ora verso la collina.
〈1〉 Vedi, su questa stessa rivista, M. Lazzarato, Poiesis e techne, 19 febbraio 2018. 〈2〉 Cfr. Platone, Repubblica, I, 342c, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2000, pp. 1095-96. 〈3〉 Platone, Simposio, 205c, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 513. 〈4〉 Vedi M. Lazzarato, Poiesis e techne, cit. 〈5〉 Per la citazione dallo Ione, vedi M. Lazzarato, Poiesis e techne, cit. 〈6〉 Vedi, su questa stessa rivista, gli articoli usciti fra il 13 novembre 2016 e il 9 gennaio 2017. 〈7〉 Platone, Simposio, 205 c, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 513. Cfr. anche M. Lazzarato, Poiesis e tekne, cit. In alto: In alto: Anonimo, Città ideale (particolare), 1480-84 circa, tempera su tavola, cm. 80,3 x 220, Baltimora, Walters Art Gallery. Sotto: frontespizio dell'edizione originale tedesca de "Lo spirituale nell'arte" di Vasilij Kandinskij, München, Piper, 1912.