Le statue monumentali che immortalano sovrani, statisti, militari e dittatori sono una presenza costante - e, mutando i regimi politici, ingombrante - nei centri urbani ovunque nel mondo. Da queste emergenze scultoree prende spunto il saggio Gli eroi della ritirata (Die Helden des Rückzugs), di Hans Magnus Enzensberger, uscito in Italia trent'anni fa, sul n. 2/1991 della rivista Belfagor. In esso, il poeta e scrittore tedesco sviluppa, alla luce di fatti epocali come la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda tra USA e URSS, una riflessione sull'uomo di potere e la sua immagine nella tradizione europea. Non stupisce che alla radice di questo suo testo vi sia una componente così specifica del decoro urbano, qual è la statuaria a carattere propagandistico-ideologico. E non stupisce che le dimensioni smisurate, l'enfasi debordante di quelle figure, continuino a esercitare ancor oggi un fascino ambiguo, tentatore. Da un lato, infatti, qualcosa di esse sopravvive nell'immaginario, tra il pop e il kitsch, che alimenta la politica di molti governi centrali, e che la Street Art dissemina copiosamente nelle periferie urbane. Dall'altro, vi è chi le ha rivisitate in chiave nostalgico-ironico-dissacrante: in primo luogo nelle nazioni dell'Europa orientale che, durante la dominazione sovietica, avevano più intensamente sperimentato quel tipo di estetica, ma anche altrove, dove l'evoluzione storica lo ha consentito. Per rendere conto di questi aspetti diversi eppure comunicanti fra loro, abbiamo corredato il testo di una serie di immagini scelte appositamente. Trent'anni dopo, è certo che gli eroi della ritirata cari a Enzensberger non hanno avuto, né avrebbero potuto avere, i loro monumenti, mentre l'immortalità degli eroi odierni ha ormai in gran parte traslocato sul web. Un sentito ringraziamento alla casa editrice Olschki, per averci autorizzato a riprodurre Gli eroi della ritirata così come era apparso nel 1991 su Belfagor, nella traduzione italiana di Sandro Barbera. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.
In tutte le capitali d’Europa, là dove lo spazio raggiunge la massima concentrazione simbolica, nel centro della città, si incontrano strani Centauri corpulenti, esseri ibridi fusi nel metallo sotto i cui zoccoli gli impiegati si affrettano ai ministeri, gli spettatori all’Opera, i fedeli alla messa: sono imperatori romani, grandi principi elettori, generali eternamente vittoriosi. La chimera a cavallo rappresenta l’eroe europeo, una figura immaginaria senza la quale la storia del continente fino ai giorni nostri sarebbe assolutamente impensabile. L’invenzione dell’automobile ha disarcionato lo spirito del mondo; Lenin e Mussolini, Franco e Stalin hanno dovuto rinunciare al supporto equino. In compenso c’è stato un aumento quantitativo, isole dei Caraibi e combinat siberiani sono stati provvisti di eroi in pietra, con stivali di dimensioni che raggiungevano non di rado il formato di un villino unifamiliare. Inflazione ed elefantiasi annunciavano la fine prossime di quegli eroi, a cui null’altro era importato che non fosse conquista, trionfo e megalomania.
Gli scrittori hanno avuto il presentimento della fine. Da più di un secolo ormai la letteratura ha preso definivo congedo da quelle figure più grandi del naturale, che fin dall’inizio aveva contribuito a creare. Da quel momento, encomio dei dominatori e saga eroica sono entrati a far parte della sua preistoria, e da un pezzo non si occupa più di Augusto e di Alessandro, ma di Bouvard e Pécuchet, di Vladimir e Estragon. Solo nel seminterrato della letteratura si parla ancora di Fridericus Rex e di Napoleone, per tacere poi di quegli inni a Hitler o di quelle odi a Stalin destinate, fin da subito, alla spazzatura.
Negli ultimi decenni altri e, ritengo, più importanti protagonisti hanno preso il suo posto: eroi di tipo nuovo, che non rappresentano la vittoria, la conquista, il trionfo, ma la rinuncia, la demolizione, lo smontaggio. Abbiamo tutte le ragioni per occuparci di questi specialisti della negazione, perché il nostro continente è affidato a loro, se vuol sopravvivere. È stato Klausewitz, il classico del pensiero strategico, a mostrare che la ritirata è la più difficile di tutte le operazioni militari. Lo stesso vale per la politica. Il non plus ultra dell’arte del possibile consiste nello sgomberare una posizione insostenibile. Se però la grandezza di un eroe si misura dalla difficoltà del suo compito, vuol dire che lo schema eroico non solo va rivisto, ma rovesciato. Qualsiasi cretino può lanciare una bomba; è mille volte più difficile disinnescarla.
Ma abilità e competenza non bastano da sole a fare un eroe. È la dimensione morale dell’azione ciò che rende memorabile il protagonista. Proprio da questo punto di vista, però, gli eroi della ritirata si scontrano con una resistenza massiccia quanto ostinata. Il giudizio diffuso continua ad attenersi, soprattutto in Germania, allo schema tramandato: come un tempo, pretende il ruolo caratteriale della fermezza e insiste su una morale politica basata soprattutto sulla saldezza dei principî e sulla coerenza, e ciò significa per forza passare anche sopra i cadaveri. Proprio quest’univoca coerenza, però, è quel che l’eroe della ritirata non è comunque in grado di offrire. Chi sgombra le proprie postazioni non solo abbandona oggettivamente il terreno, ma sacrifica anche una parte di sé. Un passo di questo genere non può riuscire senza che vi sia una scissione tra ruolo e personaggio. L’ethos dell’eroe sta appunto nella sua ambivalenza. Lo specialista dello smontaggio dimostra il suo coraggio morale nell’assumere su di sé questa ambiguità.
Il paradigma che si viene qui delineando ha acquistato effettualità storica in seguito alle dittature totalitarie del ventesimo secolo, e i pionieri della ritirata lo hanno mostrato dapprima in modo umbratile e incerto. Si può dire che Nikita Krusciov non sapeva quel che faceva, non aveva affatto le idee chiare sulle implicazioni del suo agire; in fondo dichiarava di portare a compimento il comunismo anziché di sopprimerlo. E tuttavia il celebre discorso al XX Congresso mise qualcosa di più che un germe del crollo. Il suo orizzonte intellettuale era limitato, grossolana la strategia, autoritario il comportamento, eppure superava in coraggio civile tutti i politici della sua generazione. Proprio la caratteristica oscillazione del suo carattere lo ha qualificato per quel compito. Oggi la logica sovversiva della sua carriera di eroe è manifesta a tutti: con lui è cominciato lo smontaggio dell’impero sovietico.
L’intima scissione dello specialista della demolizione compare con tratti molto più netti nella figura di Janos Kádár. Quest’uomo, sepolto senza clamore un paio di mesi fa a Budapest, è sceso a patti con la potenza di occupazione dopo la sollevazione fallita del ’56. Si debbono a lui, pare, ottocento condanne a morte. Le vittime della repressione erano appena state sotterrate, e Kádár si accingeva all’opera della sua vita, che lo doveva tenere occupato per quasi trent’anni ed è consistita nell’affossare con pazienza e perseveranza il monopolio di potere del partito comunista. È degno di nota il fatto che questo processo ha avuto luogo senza gravi turbolenze; è stato accompagnato da rovesci e da menzogne necessarie alla sopravvivenza, manovre tattiche e compromessi ne hanno sostenuto la marcia. La dissoluzione del blocco orientale si sarebbe difficilmente messa in moto senza il precedente dell’Ungheria; è indiscutibile che Kádár ha agito da precursore. Ed è altrettanto evidente che non era in grado di fronteggiare le forze che aiutava a liberare. È la tipica sorte del demolitore storico di minare sempre, col proprio lavoro, anche la postazione che occupa. La dinamica che egli provoca lo scaraventa da parte; nel successo, va a fondo.
Adolfo Suárez, segretario generale della Falange spagnola, divenne primo ministro dopo la morte di Franco. Ha trascinato il regime in un colpo di mano pianificato con precisione, spodestato il partito unico a cui apparteneva e fatto approvare una costituzione democratica: un’ardua quanto pericolosa operazione, che Suárez ha padroneggiato con coraggio personale e maestria politica. Qui non era all’opera, come nel caso di Krusciov, un presentimento nebuloso, ma una coscienza estremamente vigile. Non bisognava soltanto mettere fuori combattimento l’apparato politico, ma anche fermare l’esercito, perché un putsch militare avrebbe portato a una repressione sanguinosa e forse a una guerra civile.
Anche di un caso del genere non è possibile venire a capo facendo semplicemente ricorso a un’etica dell’intenzione, che riconosce solo il bianco e il nero. Suarez aveva partecipato e beneficiato del regime franchista; se non fosse appartenuto alla più intima cerchia del potere non sarebbe stato in grado di demolire la dittatura. Nello stesso tempo, il suo passato gli assicurava l’invincibile diffidenza di tutti i democratici. E di fatto, fino ad oggi la Spagna non gli ha reso onore. Agli occhi dei camerati di un tempo era un traditore, agli occhi di coloro a cui ha aperto la strada un opportunista. Da quando è uscito di scena, nella sua qualità di tipica «figura di transizione», non ha più potuto prendere piede in modo solido. Il ruolo che egli gioca nel sistema repubblicano dei partiti è piuttosto secondario. Una, e una sola cosa è certa per l’eroe della ritirata: l’ingratitudine della patria.
Nella figura di Wojciek Jaruselski quest’aporia morale assume tratti addirittura tragici. È stato lui nel 1981 a salvare la Polonia dall’incombente invasione sovietica. Il prezzo della salvezza è stato la proclamazione della legge marziale e l’isolamento di quell’opposizione al sistema, che oggi governa il paese sotto la sua presidenza. Il successo della sua politica non ha impedito che una parte considerevole della società polacca l’abbia guardato fino ad oggi con muto odio. Nessuno lo acclama; non si libererà mai dalle ombre che gravano sulle sue azioni. La sua forza morale sta nell’averlo messo in conto sin dall’inizio. Mai lo si è visto sorridere. La gestualità irrigidita fino all’assenza di vita, gli occhi nascosti dietro lenti scure, Jaruselski rappresenta il patriota in quanto martire. Questo San Sebastiano della politica è un personaggio di formato shakespeariano.
Lo stesso non si può dire di coloro che ne hanno seguito le orme. Presumibilmente Egon Kunz e Ladislav Adamec riempiranno solo una nota a piè di pagina nella storia: uno come la versione burlesca dell’eroe della ritirata, l’altro come la sua versione filistea. Eppure, né il ghigno del tedesco né la faccia paterna del cecoslovacco possono trarre in inganno sul fatto che essi sono indispensabili. Il trasformismo che gli si rimprovera è il loro unico merito. Nel silenzio agghiacciante del momento pregnante, quando si aspetta reciprocamente la mossa dell’altro e non accade nulla, qualcuno doveva pur raschiarsi la gola per primo, emettere quel rumore impercettibile, mezzo soffocato che provoca la slavina. «Qualcuno – così disse una volta un socialdemocratico tedesco – qualcuno doveva pur fare il mastino sanguinario». Settant’anni dopo qualcuno doveva pur cadere nelle fauci dei mastini sanguinari, anche se a rompere il silenzio mortale era un Pulcinella comunista. Nessuno penserà a lui con indulgenza: proprio questo lo rende memorabile.
Gli epigoni della ritirata sono trascinati dagli eventi. Agiscono sotto una pressione che viene dal basso e dall’esterno. Il vero eroe dello spodestamento, invece, è egli stesso la forza trainante. Michail Gorbaciov è l’iniziatore di un processo con il quale altri cercano di tenersi più o meno volontariamente al passo. È – oggi dovrebbe essere chiaro almeno questo – un personaggio del secolo. La grandezza del compito che si è imposto non ha eguali. Opera per smontare il penultimo impero monolitico del ventesimo secolo, senza violenza, senza panico, senza guerra. La riuscita dipende da questo. Eppure, ancora pochi mesi fa nessuno avrebbe creduto possibile ciò che finora egli ha raggiunto su questa via. E c’è voluto molto tempo perché il mondo cominciasse anche solo a sospettare il suo progetto. La superiore intelligenza, il coraggio morale, l’ampia prospettiva di quest’uomo – tutto questo era tanto al di là dell’orizzonte della classe politica, ad ovest come ad est, che nessun governo ha osato prenderlo in parola.
Gorbaciov non si fa illusioni sulla popolarità di cui gode nel suo paese. Lì il più grande di tutti i politici della rinuncia si vede confrontato passo per passo con il Positivo, come se si trattasse di annunciare un’altra volta ai popoli un futuro luminoso che possa offrire gratis a ciascuno, secondo i suoi bisogni, sapone, missili e fratellanza; come se ci fosse un progresso diverso dalla ritirata; come se ogni avvenire non dipendesse dalla possibilità di disarmare il Leviatano e di ritornare dall’incubo alla normalità. Si capisce che ogni passo su questa strada è gravido di un pericolo mortale per il protagonista. A destra come a sinistra è circondato da nemici vecchi e nuovi, vocianti e silenziosi. Come accade agli eroi, Michail Gorbaciov è un uomo molto solo.
In tutto questo non interessa rivendicare un culto per i grandi o per i piccoli eroi del disarmo, un culto del resto che essi non pretendono. Sono superflui nuovi monumenti. È tempo invece di prendere sul serio questa nuova specie di protagonisti e cogliere con precisione cosa li unisce e cosa li distingue. Una morale politica che conosce solo figure luminose e scellerati non è in grado di affrontare la prova. Un filosofo tedesco ha detto che ciò che conta alla fine di questo secolo non è migliorare il mondo, ma risparmiarlo. La formula non vale per le dittature che ora vengono demolite, più o meno artificialmente, sotto i nostri occhi. Anche alle democrazie occidentali si prospetta un disarmo che non ha precedenti. L’aspetto militare è solo uno dei tanti. Altre postazioni insostenibili vanno sgomberate nella guerra dei debiti con il terzo mondo, e la più ardua di tutte le ritirate dobbiamo aspettarcela nella guerra che conduciamo, fin dall’epoca della rivoluzione industriale, contro la nostra biosfera.
Sarebbe ora, perciò, che i nostri minuscoli uomini di stato prendessero esempio dagli addetti allo smontaggio. I compiti da risolvere esigono capacità che è possibile apprendere, anzitutto, da quei modelli. Così, una politica energetica ed economica degna di questo nome può essere introdotta solo con una ritirata strategica; richiede lo smontaggio di industrie chiave che alla lunga non sono meno minacciose di un partito unico. Il coraggio civile necessario per far questo non è affatto inferiore a quello che deve trovare un funzionario comunista quando si tratta di abolire il monopolio del suo partito.
Anziché far questo, la nostra classe politica si esercita in stupide pose da vincitore e in menzogne piene di autocompiacimento. Trionfa perché non rischia e pensa di diventare padrona del futuro attraverso l’immobilismo. Di un imperativo morale della rinuncia non ha alcun sospetto. L’arte della ritirata le è estranea. Ha ancora molto da imparare.
In alto: Ákos Eleőd (su progetto di), Replica degli stivali della statua colossale di Stalin abbattuta nel 1956 nel parco municipale di Budapest, 2006, bronzo, Budapest, Memento Park (foto Yelkrokoyade/Wikimedia Commons). Sotto: Jorit Agoch, Murale con motto: "Gli stati devono adottare ogni misura legislativa, amministrativa, sociale ed educativa per tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza!", realizzato nel 2018 al posto del precedente, Napoli, via Montagna Spaccata (www.ilmattino.it).